Essere Luca Zaia ha pregi e difetti. Nel precedente intervento abbiamo analizzato i motivi per i quali il governatore del Veneto potrebbe essere un ottimo candidato leader nazionale. Ora cercheremo di esaminare i problemi che potrebbe trovarsi ad affrontare qualora dovesse tentare di prendere questo percorso. Prima di tutto, riprendendo quanto già detto in precedenza, Luca Zaia è veneto ed essere veneto è un brand che a livello nazionale non ha molta fortuna. I veneti in Italia contendono ai carabinieri l’ambito ruolo di protagonisti delle barzellette, oltre a essere considerati estremamente antipatici per quel loro fastidiosissimo vizio di lavorare a testa bassa ed è tutto da vedersi se, una volta passata la pandemia, il patrimonio di apprezzamenti che ora Zaia raccoglie rimarrà intatto oppure sarà destinato a ridimensionarsi di pari passo al ridimensionarsi dell’emergenza. Non dimentichiamo che prima della pandemia Zaia era il pericolosissimo attentatore all’unità nazionale che voleva rompere con il referendum per l’autonomia. Solo l’estate scorsa in alcuni bar del Meridione appariva il cartello “locale devenetizzato”.

Passata l’emergenza e riaprendosi il dibattito politico nel paese, Zaia da “caro leader” potrebbe rapidamente tornare a essere un pericolo per l’opinione pubblica di una vasta parte del paese. Ma essere veneto per un leghista nasconde anche un altro problema. Da che esiste la Lega Nord la leadership nazionale del movimento è sempre stata appannaggio dei lombardi. I veneti pigliano i voti, i lombardi le poltrone. La lista dei leader veneti espulsi dal partito è corposa. Tosi è solo l’ultimo di una serie iniziata dal fondatore stesso della Liga Veneta; quel Rocchetta che fu cacciato dall’allora “leader maximo” Bossi. Salvini, almeno in questo, si muove in assoluta continuità con il tradizionale modus operandi della (fu) Lega Nord di bossiana memoria. La leadership nazionale del movimento è saldamente in mani lombarde. E i veneti ne stanno rigorosamente fuori. Per rendersene conto basta guardare l’organigramma del movimento: tra i vicesegretari (carica peraltro puramente onorifica, dato il controllo assoluto che Salvini esercita sul partito) l’unico non lombardo di peso, tanto da esser considerato delfino del “Capitano”, è il piemontese Crippa, del quale siamo avvertiti del suo esistere reale dalla sua condanna a risarcire con 15mila euro il Museo Egizio di Torino per una telefonata fasulla che si era inventato al fine di screditare una iniziativa del suo direttore (un gigante illuminato, peraltro) e aizzare contro di lui la piazza mediatica.

L’unico vicesegretario veneto, l’ex ministro Lorenzo Fontana, pare essere sparito dai radar dopo l’epilogo della sua esperienza governativa. Gli stessi “Zaia Boys”, fedelissimi del governatore negli attuali equilibri di potere salviniani, sono stati marginalizzati. Nessuno di loro è stato candidato dalla dirigenza lombarda nella scorsa tornata di elezioni politiche. In questo senso la polemica di Tosi rispetto alla assoluta predominanza dei lombardi nell’organigramma della Lega aveva più di un’ottima ragione, per quanto la leadership nazionale di Zaia sia invocata in Lombardia da quel vecchio marpione della politica che risponde al nome di Bobo Maroni, forse con il malizioso intento di mettere qualche zeppa nelle faglie del corpo apparentemente monolitico del partito e creare un po’ di disappunto tra le calli veneziane…

Zaia ha anche un limite personale, che lo rende difficilmente spendibile come leader nazionale: la sua tendenza a evitare impennate. Non è salito sulle barricate quando i suoi fedelissimi sono stati esclusi delle liste per le elezioni politiche nazionali, probabilmente memore della legge non scritta della Lega che impone l’oblio a chiunque esca dal partito. Pragmaticamente, applica una grande dose di prudenza personale nelle sue relazioni con Salvini. Forse Zaia sotto sotto non ambisce nemmeno a un ruolo di preminenza nazionale, quantomeno non in una fase come quella che verrà, dove si dovranno applicare provvedimenti draconiani (quindi impopolari) per sollevare le sorti dell’economia del Paese prostrata dalla pandemia. Molto meglio nell’immediato futuro stare ad aspettare che sul ponte di comando arrivi una figura di grandissimo spessore istituzionale (del genere di Mario Draghi, tanto per capirsi) che tolga le castagne dal fuoco alla politica in una fase delicatissima. Poi chi vivrà, vedrà. Anche se nonostante il recente calo di consensi è oggettivamente difficile immaginare che oggi la leadership di Salvini, all’interno della Lega, possa essere davvero messa in discussione. Ci vorrebbe un evento traumatico, per esempio essere superato nei consensi dal principale competitor di destra, quel Fratelli d’Italia che sta facendo un’aggressiva campagna di proselitismo per sfilare voti alla Lega. In questi giorni Zaia ha dimostrato anche una certa insofferenza nei confronti del team dei virologi che lo ha supportato durante i giorni dell’emergenza e che in qualche modo gli sta soffiando il palcoscenico mediatico, un po’ come lui lo ha soffiato al suo leader di partito. La narrazione che sta emergendo dai mass media è che i veri salvatori del Veneto sono stati i virologi che hanno consigliato le migliori strategie al governatore. Del resto, se torniamo indietro con la memoria ai primi giorni dell’emergenza, ci ricordiamo di un Luca Zaia che balbettava e faceva i capricci alla prospettiva che le provincie di Padova, Venezia e Treviso dovessero essere chiuse in lockdown. Titubanze che furono superate “obtorto collo” pochi giorni dopo quando il lockdown divenne nazionale. Così, per recuperare un posticino sul palcoscenico dell’informazione dal quale era stato spintonato via dal professor Andrea Crisanti, in questi giorni abbiamo sentito Zaia in versione complottista evocare la possibilità che il virus potesse essere artificiale. Possibilità – è bene sottolinearlo – assolutamente smentita da tutta la comunità scientifica, dai cui studi risulta incontestabilmente che il virus è di origini naturali.

C’è da augurarsi che il governatore nell’ansia di recuperare visibilità non proceda su questo piano inclinato, altrimenti correremo il rischio di vederlo durante le sue dirette quotidiane dalla sede della protezione civile a Mestre con un cappello di stagnola in testa per difendersi dalle onde del 5G, magari affiancato dal tennista Novak Djokovic, noto per le sue convinzioni “alternative”, complottiste e no-vax, assunto come consulente scientifico al posto di Crisanti. Uscite di questo genere erodono il patrimonio di autorevolezza che il governatore si è conquistato durante la pandemia. Ma alla fine Zaia vuol davvero diventare “più grande”?