Gli Ibis, di primo mattino, arrivano in giardino planando leggeri. Cantano solo mentre volano, e lo fanno ridendo, con un verso familiare, umano. Ti svegli con il cielo azzurro punteggiato dalle loro risa, un suono vocale che non puoi confondere. A terra si muovono lenti, silenziosi; sembrano persone uscite per strada a respirare il vento dell’oceano, a fare ciò che oggi è vietato. Noi, rimasti all’interno delle nostre case, il baluardo difensivo per proteggerci dal nemico virale, guardiamo questo cielo mattutino e scopriamo con sollievo che la bellezza di questa terra non è svanita. La città, da oltre un mese, è orfana di ogni rumore meccanico e la natura, senza rancore, con la delicatezza di chi non sa vendicarsi, appare senza vergogna: ora, per la prima volta nella storia, siamo noi a nasconderci.

Non si riappropria di nulla, la natura: niente è suo, né lo è mai stato. Si mostra e basta, come ha fatto nel Seicento, all’arrivo dei primi coloni; si muove con disinvoltura, come i pinguini che a Simon’s Town, al semaforo, attraversano la strada in fila indiana. Le auto, in questa metropoli, sono ferme, parcheggiate da settimane, e le freeway sembrano il letto di un fiume in secca. Questo giorno d’autunno, tiepido e sereno, inonda la casa di luce, e credere che il mondo, là fuori, sia davvero in crisi, assomiglia ad un esercizio mentale, lo scenario distopico di un film. Sai che, oltre il giardino, insensibile all’annunciato sovvertimento globale, permane la forza infinita di questa terra, restano immutati i sorrisi della sua gente, l’oceano impetuoso, il suo verde cangiante e la Montagna che, invulnerabile, si erge sulla città e sembra voglia proteggerla.

Il Sudafrica si è unito con forza contro il nemico invisibile: è compatto, si muove come un tutt’uno. Dalle metropoli alle province più isolate, mostra un ammirevole senso civile: la popolazione si attiene all’imperativo categorico della distanza, prepara pacchi per chi è in difficoltà, risponde ai messaggi di aiuto. In Central Cape Town si distribuiscono confezioni di cibo e coperte per i senzatetto; una chiesa è adibita a rifugio notturno, si attivano, ogni giorno, centri di assistenza. Il gruppo whatsapp del mio quartiere diviene, in questi giorni, una piccola centrale operativa: ti informa che, nel crescent, il vicino ha perso il lavoro, che un anziano non trova le chiavi di casa; annuncia una raccolta di fondi per chi è in difficoltà, la distribuzione di coperte ed abiti invernali per i viandanti senza casa. Queste manifestazioni di solidarietà, qui in Sudafrica, non costituiscono un’eccezione, ma in questo momento acquisiscono un significato più esteso, corale. Immaginare che in questa città, considerata tra le più belle del mondo, si apra una nuova ferita indelebile, è possibile, ma nessuno ci crede. Due forze, quella dei pionieri e di chi, pochi decenni fa, ha combattuto contro l’apartheid, trovano la loro sinergia inattesa nella lotta contro questo nemico etereo, alveolare, un’ombra che si muove felpata e ti lascia morire attaccato ad un respiratore meccanico.

Non può lavarne il contagio l’oceano a Camps Bay, né il Cape Doctor, il vento di Sud-Est che, con il suo urlo impazzito, soffia incessante da dicembre a marzo, durante l’estate. Era famoso, questo vento, per le sue doti di panacea cosmica, un soffio vitale capace di detergere le ferite infette e di allontanare il morbo. Li pensi, il vento e l’oceano, e l’arenaria inamovibile della Montagna, e tutti coloro che, in questo momento, si muovo in silenzio per fronteggiare l’emergenza, aiutandoti a sostenere il peso dei divieti, delle limitazioni che paiono permanere ad oltranza. Il cielo, a quest’ora, si tinge di rosso, e le ombre si allungano sulla parete. Gli Ibis si alzeranno in volo, tra poco, e con essi le risate che preludono al tramonto di questo malinconico autunno australe.

Foto di Silvia Turazza