Orfani di sale cinematografiche, in questi giorni stiamo sperimentando nuove tecniche di sopravvivenza visiva alla monotonia delle quattro mura di casa: la quinta parete ci insegna che sono diverse le tecnologie, le piattaforme e gli approcci possibili. C’è chi tenta di distrarsi lanciandosi in un cinema delle attrazioni, che racconta di luoghi fantastici, supereroi e ogni altra esotica variante. Per un mese la saga di Harry Potter ha ottenuto share normalmente sconosciuti ai canali Mediaset, superando in percentuale l’ammiraglia Rai e le sue fiction – vittoria non particolarmente gloriosa, a essere onesti –. Non è certo una novità che in tempi di crisi il genere fantasy conosca una fortuna particolare, dalla letteratura allo schermo, considerando anche il periodo – i primi anni Duemila – in cui molte di queste fortunate epopee cinematografiche sono state realizzate.

C’è poi chi preferisce immergersi nel piacere della docufiction, del reportage e di un cinema più verosimile, recuperando visioni come Contagion, di Steven Soderbergh, film ben documentato e a suo modo profetico, che inquieta ma allo stesso tempo rassicura. Era stato già tutto previsto, lo dicevano i consulenti scientifici della Columbia University che hanno contribuito alla stesura del soggetto. Pure Bill Gates lo sapeva. È già successo in un film, quindi tutto a posto. Laurence Fishburne ha già affrontato l’emergenza; il virus di cui parla Soderbergh, il MEV-1, si è diffuso a Hong Kong passando attraverso un pipistrello e attacca i polmoni dell’uomo; i governi hanno sottovalutato l’emergenza tenendola nascosta all’opinione pubblica; la pandemia ha dato origine a numerose teorie del complotto – qui la realtà credo superi la finzione, vedi alla voce “diffusione del 5G e del Covid-19 in Italia” –. Il blogger omeopatico interpretato da Jude Law non può competere.

Sono tutti nobili intenti, ma perché non provare qualcosa di nuovo? Forse è una prospettiva un po’ sadica, ma efficace nel farci star meglio. Restringiamo i confini visivi, e non solo fisici. Basta con orizzonti sconfinati, paesaggi maestosi e prospettive mitopoietiche. Basta con visioni ad ampio respiro, che analizzino le storture sociali, mediatiche e governative che ci affliggono insieme all’epidemia. Siamo chiusi in casa, da oltre un mese. Ma sappiamo anche che, da sempre, l’uomo ha tratto giovamento dall’osservare chi è più sfortunato di lui, come ci insegna il buon Lucrezio. Dunque, chi può stare peggio di noi?

“La Casa”

Sicuramente non se la passano bene i quattro protagonisti di La Casa (Evil Dead, 1982) di Sam Raimi: per le vacanze di Pasqua all’inizio degli Ottanta decisero di chiudersi in un cottage nel bosco, risvegliando le forze del male attraverso il celeberrimo Necronomicon, di lovercraftiana memoria. Inutile dire che non svilupparono una bella cera. Dopo l’incauto rito di evocazione, non esistendo vaccino o cura antibiotica contro il demonio – se non l’amputarsi arti con una motosega rugginosa – quelle quattro mura non aiutarono. Realizzato a Detroit, città natale di quattro ragazzi appassionati di horror – Sam e Ted Raimi, Bruce Campbell e Robert Tapert – lontano dai riflettori hollywoodiani, La Casa era il primo vero film per Sam dopo molti girati in 8mm, tra cui Within the woods (1978), cortometraggio che mostrò un po’ ovunque in città – perfino fra gli scaffali dei detergenti in un supermercato locale – per ottenere da produttori di fortuna i novantamila dollari necessari a realizzare un lungometraggio. Già in questo corto possiamo osservare i primi rudimenti della shakycam, attrezzatura battezzata dallo stesso Raimi per realizzare piani sequenza particolarmente sporchi che rendessero un’efficace soggettiva della possessione. Sul set, in quei giorni, furono molti i curiosi che fecero visita ai quattro ragazzi: tra questi anche un certo Dario Argento, autore pienamente affermato – la cui vena artistica, a dire la verità, si stava già esaurendo – ma non solo. Sul set vennero anche due fratelli di St. Louis Park, in Minnesota. Si chiamavano Joel e Ethan Coen. Due anni dopo avrebbero realizzato il loro primo lungometraggio, Blood Simple – Sangue facile (Blood Simple, 1984): le dritte di Raimi furono fondamentali. In quegli anni li raggiunse a New York e diede loro più di una dritta artigianale, per imparare il mestiere.

“La casa nera”

Se ai cottage nei boschi preferite dimore più eleganti, potrete fare affidamento su Wes Craven e il suo La casa nera (The People Under the Stairs, 1991): siamo nei sobborghi di Los Angeles, e il piccolo Fool viene reclutato per un furto all’interno di un’antica dimora coloniale, dall’aspetto sinistro. Dopo pochi passi tra gli interni tremolanti e i legni che rappresentano lo scheletro della struttura, il giovane protagonista verrà travolto da una serie infinita di orrori. Punto di congiunzione ideale tra un horror tout court e I Goonies, La casa nera si presenta come una spietata satira sociale per un’America perversa, scossa da profonde divisioni sociali e pregiudizi razziali che conducono alla follia un’antica e incestuosa famiglia di becchini. Fool è una delle tante vittime di un sistema speculativo tristemente consolidato nel panorama immobiliare degli States, che nel corso del Novecento ha abilmente depredato la comunità afroamericana. Chi incarna questa strategia nel film di Craven è una coppia, Madre e Padre, fratello e sorella, carcerieri del popolo sotto le scale, una comunità segregata e rimossa alla vista, condannata alla follia di un perpetuo presente. Craven non risparmia trucchi da grand guignol, tute BDSM ed effetti speciali prostetici: il suo è un viaggio nelle intercapedini dell’ideale american way of life, marcio e compromesso. Solo violenza, follia, rimozione, sopravvivono sotto le scale della dimora in cui un mondo cannibale di derelitti, rapiti ancora bambini e privati della luce del sole dalla sadica famiglia Robeson, è la metafora per un processo di reinterpretazione della mostruosità insita nel processo di gentrificazione dei quartieri popolari. A Spike Lee Joint, sir.

“Carnage”

Qualora non gradiste gli eccessi sanguinolenti finora descritti, c’è comunque e sempre chi sta peggio di voi, fidatevi. Lo sa bene Roman Polanski, che nel suo Carnage osserva sornione dietro l’obiettivo Kate Winslet, Jody Foster, John C. Reilly e Christoph Waltz che danno il peggio di sé. Due coppie, uno scontro violento tra due bambini e un tentativo di cortese e adulta riconciliazione. Yasmina Reza ci insegna che non c’è Kokoschka che tenga: è inutile trattenere rigurgiti primordiali sotto una facciata di normalità. La camera di Polanski limita lo spazio ad un salotto, non si allontana troppo dal primo piano e ci racconta le piccole miserie che raggiungono una superficie borghese di apparente equilibrio, comprensione e razionalità. Dal rapporto conflittuale con l’alterità interna ed esterna alle due coppie tuttavia non emerge alcuna catarsi possibile – almeno nell’opera originale, di cui Polanski muta purtroppo il finale, cambiando profondamente il senso della drammaturgia originale, dove non viene suggerita alcuna riconciliazione infantile –. La violenza che soggiace ai rapporti umani, governata ma pronta ad esplodere secondo un culto del massacro che governa ego ed es viene ritratta come un diverbio all’inizio educato, che muta rapidamente in un conflitto crudissimo, alterando i volti dei protagonisti, maschere non più prostetiche ma altrettanto deformate.

Non ne avete abbastanza? Non preoccupatevi, questo è solo un assaggio: esiste un intero universo di case infestate, nevrosi, massacri e conflitti familiari chiusi dall’intimo calore delle mura domestiche che vi attende, al cui confronto la pandemia da Covid-19 apparirà come un noioso intermezzo tra due slasher di serie B.