Forse per quell’essere nato in Valpolicella e aver frequentato la scuola d’arte Brenzoni di Sant’Ambrogio, dove anche allora si formavano i marmisti, da grande Libero Cecchini avrebbe voluto fare lo scultore. Invece per 75 anni ha fatto l’architetto, lasciando a Verona molti segni del suo lavoro.

Il decano dei professionisti veronesi si è spento ieri, lunedì 20 aprile. Classe 1919, cent’anni festeggiati a settembre, Cecchini è stato protagonista della ricostruzione post bellica della città e di interventi di archeologia urbana che in Italia hanno fatto scuola: Palazzo Forti, gli Scavi Scaligeri, la basilica di San Zeno, Porta Leoni. Ma nella progettazione si è distinto anche a livello nazionale e internazionale con opere come la Camera di Commercio di Verona e la cittadella museale di Cagliari, intervento, quest’ultimo, che nel 1989 gli aveva valso il premio dell’Istituto nazionale di Architettura. 

È difficile riassumere la sua lunga carriera di architetto, restauratore, urbanista, docente, scultore, pittore, presidente di numerose istituzioni, attivista nel sociale e attento osservatore dell’evoluzione della città, come aveva fatto di recente inviando alla Commissione temporanea del Comune una sua proposta di riqualificazione dell’Arsenale centrata sul verde come contrappeso all’apparato storico.

Il primo intervento lo aveva eseguito tre anni dopo la laurea al Politecnico di Milano, fresco di iscrizione all’Ordine degli Architetti di Verona con la tessera numero 17. Piero Gazzola, il soprintendente del Veneto occidentale, lo aveva voluto accanto a sé per ricucire le ferite della Verona bombardata, affidandogli la direzione artistica della ricostruzione del ponte di Castelvecchio. Dieci anni più tardi i due collaboreranno anche per la riedificazione di ponte Pietra, altro restauro passato alla storia. Proprio dei ponti di Verona Cecchini aveva detto: «Dovevamo ricostruirli non solo per collegare le sponde, ma come atto di fiducia, una spinta alla città far capire che si poteva ricominciare».

A indirizzarlo verso l’architettura era stato un grande del Novecento, Ettore Fagiuoli, suo professore al liceo artistico, insistendo con il padre Beniamino affinchè Libero si iscrivesse al Politecnico. Il primo impatto con Milano fu traumatico, il giovane scese e risalì sul treno senza nemmeno metter piede fuori dalla stazione. Poi si convinse (sospese gli studi per un anno a causa della guerra, ma si laureò nel ’44 in pieno conflitto) e per Verona fu una fortuna: Cecchini è stato uno dei suoi figli più operosi e fino all’ultimo ha lavorato per il suo miglioramento e salvaguardia. Pur senza mai abbandonare la passione per la scultura, fino a dedicarvisi a tempo pieno negli ultimi anni. «Mi definisco un architetto artista», diceva, «perché per me l’architettura e la scultura sono un tutt’uno. Nella pietra ci sono nato».

foto di Leonardo Ferri