Il circolo vizioso
Il populismo genera mostri, così come le disuguaglianze prodotte dallo sviluppo economico, generano ira fra classi sociali. Una sorta di circuito chiuso che si autoalimenta.
Il populismo genera mostri, così come le disuguaglianze prodotte dallo sviluppo economico, generano ira fra classi sociali. Una sorta di circuito chiuso che si autoalimenta.
Il populismo nasce dal cortocircuito che nel sistema democratico si innesca tra il postulato dell’uguaglianza e parità di diritti (che pone potenzialmente tutti i cittadini al medesimo livello) e le loro condizioni economiche che realmente stabiliscono delle barriere – formali o informali – tra le classi sociali. Questo cortocircuito genera il risentimento degli esclusi, che dopo l’eclissi della narrazione socialista non trova più sfoghi nell’ideologia e si traduce nella rivolta delle masse contro le élite. In estrema sintesi questo è il carburante di cui si nutrono i movimenti postideologici che sono comunemente definiti “populisti”.
Letto in questo modo, L’ospite inquietante del XXI secolo (ma con le radici ben piantate nel XX e pure nel XIX) non è un accidente di percorso della democrazia, bensì un suo esito che potremmo definire “necessario”. In questo solco si è mossa l’analisi che ne ha dato per esempio Giovanni Orsina nel suo Democrazia del Narcisismo. Spingendoci oltre si può osservare come in democrazia lo spirito di uguaglianza privo di limitazioni tende a tollerare sempre di meno le gerarchie esplicite e implicite della scala sociale. Il famoso “ascensore sociale” non è aperto a tutti, nonostante le promesse insite nella narrazione dell’uguaglianza democratica, ma è limitato per nascita o per cooptazione a una ristretta élite. Questo processo viene accelerato da una caratteristica fondamentale che è stata il motore del capitalismo negli ultimi 500 anni: i lussi di una classe dominante diventano successivamente le necessità per le classi inferiori o le generazioni successive. È stato così per qualsiasi bene materiale di cui abbiamo notizia, dai tessuti pregiati alle spezie, fino all’automobile o al telefono. Introdotti come beni di nicchia per una ristretta cerchia che se li poteva permettere, in seguito sono divenuti prodotti maistream di massa. Pure uno degli ultimi arrivati in ordine di tempo, “l’assistente digitale”, come Siri di Apple, è il surrogato pop di uno dei più inossidabili status symbol delle élite: il personale di servizio. Il sistema democratico incrementa le aspettative di ascesa sociale e il capitalismo quelle di accumulazione di beni. Fin qui, per il pensiero liberale oggi egemone, va tutto bene. Postulando un’espansione economica sul lungo periodo potenzialmente senza limiti – al netto delle crisi economiche cicliche –, un generale incremento del benessere generato da un mercato libero allocherà in maniera ottimale le risorse e abbatterà la povertà. Questo nel mondo ideale. Nel mondo reale invece, come ha dimostrato in maniera piuttosto convincente Piketty nel suo Il capitale nel XX secolo, il tasso di rendita del capitale tende a superare quello di crescita economica. Tradotto in altri termini: tende a concentrarsi. I numeri non hanno colore e tutti noi conosciamo le statistiche annuali che ci dicono come la ricchezza sia inegualmente distribuita, concentrata presso un’élite. Il famoso 1% che detiene più ricchezza del rimanente 99%. Perché il sistema è fatto così, non è morale. Le diseguaglianze, non più incanalate in una narrazione alternativa come quella socialista o sublimate nella promessa escatologica di Salvezza della Religione generano ira. Peter Sloterdijk, uno dei più acuti filosofi contemporanei, ha descritto la nostra come un’epoca priva di punti di raccolta dell’ira. Il corto circuito è lampante: lo sviluppo economico genera diseguaglianza e di conseguenza ira che viene canalizzata e sfruttata dai movimenti populisti come sistema di mobilitazione del consenso. Un perfetto circuito chiuso che si autoalimenta.
La via d’uscita da questo circolo vizioso dovrebbe essere quella di una più equa distribuzione della ricchezza, ma Walter Scheidel nel suo recente – e fondamentale – La Grande Livellatrice ci dice che le cose non sono affatto così semplici. Lo studioso americano, attraverso un’analisi molto particolareggiata, dimostra in maniera piuttosto convincente come il più efficace sistema di ripartizione della ricchezza e livellamento delle diseguaglianze nella storia sia stata la violenza somministrata in dosi eccezionali. Secondo lo studioso sono stati quattro i Cavalieri dell’Uguaglianza: la guerra totale di annientamento, la completa sovversione dell’ordinamento sociale (rivoluzione), il fallimento dello Stato e, last but not least, la pandemia. È un esercizio interessantissimo seguire Scheidel nel suo percorso all’inseguimento della tetra regina della redistribuzione. Ad esempio quando ci dimostra che la redistribuzione della ricchezza durante la Grande Peste del 1348 che uccise 1/3 degli europei fu causata essenzialmente dalla scarsità di mano d’opera, essendo gli operai morti in massa, che aveva consentito ai superstiti di “are il prezzo per le loro prestazioni, spuntando compensi assai più elevati di quelli ante epidemia. Parimenti ci dettaglia come la redistribuzione di reddito avvenuta a seguito dei due conflitti mondiali (una guerriciola limitata è un palliativo) è stata fondamentalmente la conseguenza di provvedimenti di emergenza derivanti dall’impegno bellico, come ad esempio la nazionalizzazione di parti dell’economia, piuttosto che di provvedimenti specifici. Qui sta il punto importante degli studi di Scheidel: sembra piuttosto aleatorio perseguire intenti redistributivi della ricchezza (che potrebbero essere un antidoto al populismo) attraverso l’ordinario procedimento decisionale-normativo. Questo che cosa ci dice? Che dovremmo auspicare una guerra di annientamento? O una pandemia globale (che per inciso è ciò che sta accadendo in questo momento). No, ovviamente. Ci dice piuttosto che dovremmo guardare alla realtà come essa è, piuttosto come vorremmo che fosse. Stessa lezione, fra l’altro, del creatore della moderna scienza politica, quel Nicolò Machiavelli che per la crudezza del suo pensiero qualcuno ha messo all’inferno. Solo nell’osservazione della realtà scevra da moralismi o ideologizzazioni potremmo trovare la chiave di lettura e di azione nel modo.