Immaginando un futuro per Verona e il Veneto
Cosa succederà al nostro territorio quando tutto questo sarà finito? Difficile dirlo, ma proviamo ad immaginarlo con uno sforzo di (nemmeno troppa) fantasia.
Cosa succederà al nostro territorio quando tutto questo sarà finito? Difficile dirlo, ma proviamo ad immaginarlo con uno sforzo di (nemmeno troppa) fantasia.
Le dichiarazioni improvvide della Presidente della BCE Christine Lagarde, che hanno fatto crollare la Borsa di Milano e fatto schizzare lo spread, mostrano la fragilità del sistema Europa a partire dalla comunicazione. Ma non solo.
Se le difficoltà del nostro paese sono note e a noi tutte imputabili (debito pubblico altissimo, carenza di materie prime, poca occupazione, scarsi investimenti nella ricerca e quindi pochi brevetti, nanismo delle aziende, paygap), in un momento come questo vengono acuite dalla mancanza di attenzione e sensibilità europea. Per carità, i paesi del Nord Europa hanno sempre guardato con disprezzo i PIGS (Portogallo, Italia, Grecia, Spagna) e questa dichiarazione, ovvero che «Non siamo qui per chiudere gli spread, ci sono altri strumenti e altri attori per gestire quelle questioni» sarebbe sì della Lagarde ma su imbeccata di Isabel Schnabel, la tedesca nel comitato della Bce. Per fortuna, una bella pezza ce l’ha messa Ursula Von der Leyen (Commissione Ue): “Daremo all’Italia tutto quello che chiede”. Possiamo, comunque, grazie alla signora Schnabel, farci un’idea di quanto stiano a cuore le sorti dell’Italia per il primo azionista dell’Europa.
Possiamo anche capire – e la storia recente ci aiuta – quanto possiamo contare sul secondo azionista dell’UE, ovvero la Francia. La politica incendiaria di Macron in Libia a tutto danno dell’Italia e dei suoi interessi, oltre che il ricordo della scarsa solidarietà durante l’emergenza migranti (tutti ricordiamo i fatti di Ventimiglia) mostra un’ostentata noncuranza degli interessi di quello che dovrebbe essere un alleato NATO e uno dei paesi fondatori dell’UE.
Ed eccoci qui a osservare sgomenti dal piccolo oblò scaligero il mare in tempesta. Il punto è: a fronte di quanto stiamo osservando, quale futuro si prospetta per la nostra città, e per quale obiettivo di lungo periodo dovremmo batterci? Ragioniamo sul contesto. La crisi economica del Lombardo-Veneto è un problema per l’Italia, visto che contribuisce per il 31% al PIL nazionale (2018) e pure per l’Europa, visto che “Dai dati disponibili più recenti (2016, Eurostat), Lombardia e Veneto risultano essere, infatti, la seconda e la settima regione dell’Ue per valore aggiunto lordo del settore manifatturiero; la prima e l’ottava nel settore industriale; la terza e la decima in quello agricolo”. Quanto rimarrà dopo una simile crisi globale è tutto da vedere. Quel che è certo è che, di questo passo, un destino per l’Italia simile a quello greco è sempre più probabile visto gli effetti di una sola dichiarazione sullo spread (che certificano che l’Italia è percepita come anello debole), con l’aggravante che lo shopping di aziende italiane da parte di gruppi stranieri più solidi procede spedito già da tempo. E il Veneto, ovviamente sarebbe colpito come ogni altra regione.
Risalta la divisione interna e spicca la solitudine di Verona: allo scoppio dei primi focolai, buona parte del sud ha subito mostrato l’insofferenza (come diceva Pasolini, “l’essere odiati fa odiare”) che prova nei confronti delle regioni del nord, già espresso con i bar devenetizzati a suo tempo e che, per Verona, ha assunto livelli da capro espiatorio come evidenziato dalla ridicola vicenda Balotelli. Di fatto, non esiste una concreta solidarietà tra le anime del paese, che risulta ancora un aggregato di popoli con uno spirito da riunione condominiale fantozziana.
Ultimo, il fallimento dell’Autonomia, così tanto incardinata nei cassetti di Boccia, Ministro delle Autonomie, che da lì mai si sposterà. Ma è più in generale che dobbiamo valutare l’operato della gestione della regione Veneto oltre questo evidente fallimento: dopo anni di sbandierata virtuosità gestionale, scopriamo che il contratto dei medici è fermo da 10 anni, che le corsie sono vuote e che la privatizzazione sistematica scarica costi ed emergenze sul pubblico e i ricavi sul privato. Nel frattempo, già sapevamo – ma non ci interessava – che la media della cementificazione del Veneto è il doppio di quella nazionale (2018) e, con la vicenda Pfas e la scoperta del Veneto “seconda terra dei fuochi”, che la tutela del territorio è asservita agli interessi solo economici. Insomma, se il Veneto economicamente corre lo fa nonostante una gestione non all’altezza (basta mettere in fila le dichiarazioni di Zaia sul Coronavirus) e ipotecando le risorse del proprio futuro. A fronte di queste evidenze, non è l’Autonomia la chiave per un futuro prospero del Veneto, almeno con questa leadership.
Ora siamo solo all’inizio dell’uragano: scopriremo presto se il mondo e l’UE (a partire dal QE da 120 miliardi predisposto dalla Lagarde) sapranno gestire l’impatto di questa crisi. Nel mezzo, l’Italia – sola, come visto – sembra la meno resistente per resistere ai marosi. A questo punto, il Veneto – e quindi Verona – dovrebbe cominciare a pensare a un qualche futuro. Quale? Ne parlavamo l’anno scorso: l’interconnessione con l’Europa e il mondo commerciale è fondamentale. Ci sono però altre evidenze: l’Italia non gode dell’appoggio sincero dell’Europa e gli italiani sono i più euroscettici. L’Europa, d’altronde, ha bisogno del Veneto, così come il Veneto ha bisogno dell’Europa e soprattutto le sue aziende. Ecco, dunque, una prospettiva di lungo periodo sul quale, appena finita l’emergenza (o magari sfruttandola: crisi, in greco, significa scelta, decisione) si potrebbe cominciare a ragionare: un’uscita dall’UE dell’Italia (con somma soddisfazione dei sovranisti) e un successivo rientro del Lombardo-Veneto, magari sotto un’altra bandiera e nell’ottica della cosiddetta Kerneuropa.
Impossibile, si dirà. Ma la golosità di una simile occasione – che permetterebbe all’UE, finora caratterizzatasi per un pragmatismo spietato, di gettare l’osso e tenersi solo il boccone più succulento – potrebbe spingere l’Europa ad abbandonare le posizioni neutraliste assunte sulla questione catalana e, così, giustificare la revisione dei confini statali spacciando l’annessione – questa volta – come giusto adempimento della volontà popolare, come sta già timidamente provando a fare col Kosovo.