Il diritto alla privacy al tempo del Coronavirus
L'emergenza Coronavirus ci impone di riflettere su tanti aspetti, fra cui anche quello del diritto alla privacy, che in certi casi può essere evidentemente derogato.
L'emergenza Coronavirus ci impone di riflettere su tanti aspetti, fra cui anche quello del diritto alla privacy, che in certi casi può essere evidentemente derogato.
Il testo Cristofano e la peste di Carlo Cipolla è, di questi tempi, decisamente interessante. Tratta dell’effetto della peste di manzoniana memoria nella regione di Prato e delle strategie dello Stato regionale dei Medici per contrastarla. Ora, se i numeri parlano di un’ecatombe e di un disastro finanziario, le dinamiche si ripetono in modo stupefacente, visto che sono passati quasi 400 anni: una sola vera strategia di contenimento, ovvero la quarantena, il diffondersi di opinioni molto approssimative sul morbo e forme di razzismo (“i sempliciotti di Prato”) verso gli abitanti del contado. Ma a un’altra cosa le epidemie hanno contribuito: ad affinare, nel corso del tempo in modo sempre più stringente, il controllo delle istituzioni rispetto alla libertà del singolo nel nome dell’interesse collettivo. Identificare, catalogare, verificare i percorsi, mettere in quarantena famiglie, paesi, città sono quantità di azioni che richiedono un controllo capillare e percepibile del territorio e una montagna di informazioni.
Con la nascita degli Stati nazionali esplodono progressivamente i costi della burocrazia e del personale alle dipendenze dello Stato (esercito compreso): ciò richiede tutte le risorse disponibili e l’individuazione precisa di tutti i soggetti tenuti a contribuire. Le epidemie, nel corso del tempo, hanno perciò puntellato l’espansione del raggio di intervento dello Stato nella vita comune grazie, in questo caso, al senso di priorità della salute pubblica di fronte a un evento catastrofico. Mentre, di contro, la popolazione cerca di rimanere il meno visibile possibile. Nell’era di Google, Facebook, Instagram, Huawei, Apple e Microsoft come sta la nostra privacy? In Italia, a dir la verità, piuttosto in salute. Nel caso di Mattia, il 38enne contagiato di Codogno, gli spostamenti sono stati ricostruiti dal personale medico e con la sua collaborazione e non – per quanto ne sappiamo – dalle forze dell’ordine. D’altronde, come rifiutarsi? Se le forze dell’ordine accedessero a tutti i dati del nostro cellulare e del nostro traffico online per impedire a un virus di espandersi, pochi avrebbero da ridire. La specie umana, nel corso della sua evoluzione, ha sempre mantenuto alto il valore dell’interesse collettivo e la retorica dei popoli celebra il sacrificio del singolo se necessario alla sopravvivenza dei più. È quindi sufficiente la buona volontà?
Forse no. Si diffondono così, per la tutela della salute pubblica, strumenti come il software realizzato dalla malese Myeg Services, che mira ad automatizzare il riconoscimento dei casi di Coronavirus riducendo i rischi di contagio. Il software è stato presentato ai governi di Malesia e Filippine per contrastare la diffusione del virus: un’intelligenza artificiale controllerà lo storico delle posizioni, il battito cardiaco, la temperatura degli individui e incrocerà i dati col trasporto pubblico e i principali luoghi pubblici. Tutto bene, ovviamente. Ed è pure un fatto che, già oggi, tutti i nostri dati sono controllati a distanza: la provocazione dell’artista Simon Weckert, che ha intasato il traffico cittadino ingannando Google Maps, dimostra non solo l’incidenza dell’applicazione nella nostra vita, ma pure come sia possibile condizionare chi quei dati concede, spesso con leggerezza.
Perché un’epidemia mette tutto in second’ordine. Pensiamo alle strade di Hong Kong, ricolme di gente nelle proteste contro Pechino e il governo locale nell’autunno 2019 e ora vuote. Perché il punto qui non è il contrasto alle strategie di contenimento, ma l’uso distorsivo di questi nuovi mezzi nelle mani di istituzioni allergiche alla democrazia. D’altronde, l’arma della gente è la piazza: ma se tutti sono confinati a casa e isolati, per i poteri strutturati è tutto molto più semplice. Il tentativo dell’OMS di coinvolgere i gestori social per contrastare le fake news è certo lodevole e forse necessario, visto il proliferare di notizie imprecise quando non addirittura false. Ma, nel momento in cui diventasse prassi e divenisse possibile anche agli Stati ricorrere a un filtro su certe questioni dichiarate di priorità nazionale, chi garantirebbe che la sospensione della libertà di espressione sarà davvero nel pubblico interesse?
Il Coronavirus, in questo senso, ha mostrato come la Cina non solo abbia seri problemi con la verità – e lo dimostra la vicenda del dottor Wenlinang – ma anche e soprattutto sia vittima della censura del governo cinese nei confronti dello scontento popolare riguardo la gestione dell’emergenza. Già ora un esercito di Stato vigila sul traffico online del popolo cinese. E se un’intelligenza artificiale con un’ampia disponibilità di accesso ai dati potesse, oltre che alle epidemie, individuare tutta una serie di pensieri e comportamenti perseguiti dallo Stato come il dissenso, i gusti sessuali, la vita di tutti i giorni? Sembra una questione oziosa, stante l’Italia in un sistema democratico come quello europeo. Ma già oggi i possessori dei dati personali (aziende non europee, per lo più) ci condizionano vendendo quei dati a un marketing sempre più mirato; e le prospettive non sono affatto rosee. Visto che l’Europa è tra due giganti, quello della democrazia e della libertà a scapito degli altri (gli USA) e quello della democrazia per nessuno e dell’assimilazione economica (Cina), riuscirà a mantenere per i propri cittadini il diritto all’anonimato anche se in contrasto con l’interesse collettivo in caso di crisi pandemica?