Il 25 gennaio 2016 venne sequestrato nelle strade del Cairo un giovane ricercatore di 28 anni originario di Fiumicello, un piccolo paese triestino. Figlio di Claudio Regeni e di Paola Deffendi, il suo nome era Giulio. Quattro anni dopo, nonostante abbiano ammesso di aver sorvegliato Regeni, le autorità egiziane insistono di non averlo né rapito né ucciso. L’Egitto ha una lunga storia di gestione delle crisi attraverso prima la negazione e l’insabbiamento e poi il temporeggiamento, nella speranza che il problema venga dimenticato. L’ostruzionismo, però, in questo caso non si è rivelato efficace: Amnesty International, attraverso costanti campagne di sensibilizzazione, «si batte e continuerà a farlo affinché l’attenzione sul caso Regeni resti alta e la giustizia faccia il suo corso».

La pressione che l’Ong per i diritti umani esercita sul governo egiziano è continua: sono più di 120mila le firme raccolte per l’appello rivolto al presidente Abdel Fattah al-Sisi. Amnesty afferma «che ciò che è accaduto a Giulio non è un fatto isolato. In Egitto l’Agenzia per la sicurezza nazionale si rende responsabile di rapimenti, torture e sparizioni forzate».

Tu ufficialmente non esisti” è il titolo del rapporto nel quale l’associazione denuncia la tendenza dello Stato egiziano a far sparire senza lasciare traccia chiunque si batta per i diritti umani, minorenni compresi. Durante la giornata di oggi, Amnesty International ricorderà il quarto anniversario dalla scomparsa di Giulio con una fiaccolata nazionale diventata un appuntamento fisso: in molte piazze italiane si accenderanno candele, si leggeranno poesie ma soprattutto si sottolineerà l’importanza di tenere sempre alta l’attenzione sul caso. A Verona il gruppo locale ha scritto nella sua pagina Facebook «Quella del 25 gennaio non sarà una semplice manifestazione, ma un abbraccio fortissimo di sostegno di tutta l’Italia alla famiglia di Giulio Regeni». L’appuntamento è in Piazza dei Signori dalle 19 alle 20.

Foto di Carolina Torres

Ma chi era Giulio Regeni? Un giovane brillante, uno studente sagace, che amava viaggiare e stare in mezzo alla gente. Conosceva cinque lingue. Aveva vinto più volte il prestigioso premio “Europa e giovani” con i propri approfondimenti sull’economia del Medio Oriente. Scriveva rapporti sul Nord Africa, analizzando tendenze politiche ed economiche. Aveva terminato il corso di laurea in arabo e scienze politiche all’università di Leeds nel 2011, lo stesso anno in cui sono esplose le manifestazioni di Piazza Tahrir che portarono alla caduta del Presidente Mubarak in Egitto. Giulio era rimasto affascinato dallo spirito rivoluzionario di quegli anni e decise di concentrare le ricerche per il suo dottorato all’università di Cambridge sui sindacati indipendenti egiziani – nel 2011 erano cresciuti da solo quattro a migliaia – che vedeva come potenziali fautori di cambiamenti politici e sociali, capaci di instaurare una seppur fragile democrazia.

In quegli anni l’Egitto stava attraversando uno dei periodi più delicati della sua storia: la stampa era ridotta al silenzio, gli avvocati e i giornalisti erano costantemente sotto minaccia, circolavano assurde storie di cospirazioni straniere, nei caffè e nelle strade abbondavano gli informatori dei servizi segreti egiziani. Ma Giulio era determinato e trovò ben presto una stanza a Dokki, a pochi passi dal centro del Cairo: condivideva un appartamento con due giovani, un insegnante di tedesco, e Mohamed El Sayad, avvocato in uno dei più antichi studi legali della capitale. Giulio intervistava venditori di strada, mangiava dai loro stessi carretti, ma alcuni di loro se ne approfittavano infastidendolo per chiedergli favori, come per esempio cellulari nuovi.

Il pensiero ingenuo di essere fuori pericolo perché italiano, però, si sfaldò poco alla volta: disse ad amici di aver notato una ragazza che gli scattava foto durante un incontro con alcuni sindacalisti e i rapporti con il suo principale contatto, Mohamed Abdullah, che gli offriva consigli e gli presentava uomini da intervistare, precipitarono in una situazione senza vie d’uscita.

Nei primi giorni del 2016, i due si diedero appuntamento per parlare di una borsa di studio di 10mila sterline per “ricercatori attivisti” messa a disposizione da una non-profit inglese, Antipode Foundation. Regeni si offrì di fare domanda per il contributo, ma Abdullah voleva che fosse utilizzato per progetti di attivismo politico contro il governo egiziano. Regeni rifiutò. Mohamed, però, era ostinato, avrebbe fatto qualunque cosa per i soldi: sua figlia doveva operarsi e sua moglie era malata di cancro.

Adbullah fu uno dei numerosi moventi dell’omicidio: davanti all’impossibilità di accedere alla borsa di studio, vide nella vendita di Giulio agli apparati egiziani la strada per lucrare. Giulio fu tradito, non solo da lui ma anche dal suo stesso coinquilino, Mohamed El Sayad, che permise a funzionari dell‘agenzia di sicurezza nazionale di perquisire il loro appartamento. La sera del 25 gennaio 2016 Giulio uscì di casa per recarsi a una festa di compleanno di un amico italiano che abitava non molto distante. Scrisse alla sua ragazza alle 19.41 «Sto uscendo». Ma alle 20.18 non era ancora arrivato. L’unica notizia di Giulio giunse la mattina del 3 febbraio 2016, quando il suo corpo venne trovato sul ciglio della strada che conduce dal Cairo ad Alessandria. La bocca era spalancata, i suoi denti rotti, la pelle aveva evidenti segni di bruciature di sigaretta, il lobo destro mozzato, i polsi, le spalle e i piedi frantumati. Regeni era stato torturato a lungo e l’autopsia, realizzata a Roma, confermò l’entità delle sue lesioni: era stato picchiato, bruciato, pugnalato per quattro interminabili giorni. La madre dirà: «L’ho riconosciuto dalla punta del naso. Giulio non era in guerra, faceva ricerca e l’hanno torturato».

La polizia egiziana avviò una ricerca per persona scomparsa, seguendo però piste piuttosto inusuali. Il 4 febbraio il generale Khaled Shalabi, direttore dell’Amministrazione generale di Giza, dichiarò che Giulio era stato vittima di un semplice incidente stradale. Ahmed Nagy, il procuratore inizialmente incaricato dell’indagine sull’omicidio di Regeni, disse ai giornalisti che Giulio aveva sofferto una morte lenta e disse di non escludere che la Polizia egiziana potesse essere coinvolta, ma poco dopo suggerì che Regeni potesse essere morto in un incidente d’auto. Quello fu uno dei tanti rozzi tentativi di insabbiamento sulla morte di Giulio da parte del governo egiziano: circolò la voce che Regeni fosse stato sequestrato da radicali islamisti, che fosse omosessuale e fosse stato ucciso da un amante geloso, che fosse un tossicodipendente, una pedina dei Fratelli Musulmani o una spia.

Foto di Carolina Torres

La risposta della popolazione in Italia fu grande quanto l’indignazione causata dalla violenta morte di Giulio. Più di 3.000 persone assistettero al suo funerale a Fiumicello e in tutta Italia comparvero striscioni e braccialetti gialli con lo slogan “Verità per Giulio Regeni”, campagna promossa e portata avanti dai genitori con Amnesty International Italia. Nel frattempo, i giornalisti italiani iniziarono ad arrivare al Cairo e le pressioni internazionali sul governo egiziano crebbero in modo esponenziale. Fu creato il sito web “RegeniLeaks” per le soffiate degli informatori egiziani.

L’8 aprile 2017, durante l’ennesimo tentativo di insabbiamento, la polizia egiziana uccise cinque persone appartenenti a un gruppo mirato di sequestratori e rapinatori, secondo loro collegato con Giulio, dato che dissero di aver trovato nell’appartamento di uno dei membri il passaporto, la carta di credito e la tessera universitaria di Regeni. L’Italia rispose richiamando l’ambasciatore Massari a Roma. Il periodo di assenza di Massari è stato l’unico intervallo di tempo nel quale l’autorità giudiziaria del Cairo ha fornito elementi utili alla ricerca per la verità: dopo mesi di rapporti diplomatici tesi, il 9 settembre 2016, durante un vertice Italia-Egitto, il procuratore capo egiziano, Nabil Sadek, ha ammesso pubblicamente che l’agenzia di sicurezza nazionale egiziana, sospettando Regeni di spionaggio, lo teneva sotto sorveglianza. 

Ma riassumiamo dunque, anno per anno, ciò che è (e non è) successo durante il caso Regeni:

2016: i legali di Regeni, davanti alle poche risposte sul caso, fanno pressione sulla Procura egiziana richiedendo l’accesso al fascicolo delle indagini, che dopo mesi è ancora inesistente. Il 14 agosto, con la promessa della Procura di inviare i video della metropolitana – ultimo luogo in cui Giulio è stato visto – viene annunciato il richiamo da Il Cairo dell’ambasciatore italiano. Ma più che un comprommesso, da parte dello Stato Italiano è la rinuncia all’unica forma di pressione sulle autorità egiziane.

2017: il governo egiziano indurisce la sua linea di ostruzionismo, incarcerando difensori dei diritti umani, giornalisti, blogger e di chiunque si schieri dalla parte della ricerca della verità per Giulio. Il legale della famiglia Regeni dirà testualmente: «… (l’obiettivo del regime al-Sisi) è fare in modo che nessuno possa controllare la fondatezza o meno delle informazioni estrapolate dal procedimento giudiziario egiziano». Nell’ottobre 2017, la Federazione nazionale della stampa italiana, con Amnesty International Italia e Articolo 21, lancia l’appello all’istituzione della scorta mediatica, per «tutelare attraverso l’informazione la figura di Giulio da attacchi e offese alla sua dignità, alla sua storia, alla sua morale, e insieme mantenere alta l’attenzione sulla vicenda». Nel frattempo l’Ambasciatore italiano viene fatto tornare nella capitale egiziana.

2018: è l’anno dei numerosi incontri tra diversi ministri italiani e il presidente egiziano Al-Sisi, che pronuncerà «Giulio è uno di noi». Parole che indignano dopo i rozzi insabbiamenti del suo governo. Riccardo Noury, il portavoce di Amnesty International Italia, dirà che sono parole leggitimate dai continui omaggi che, a turno, i rappresentanti e ministri italiani hanno elargito in favore di un governo che ha fatto di tutto fuorché assicurare verità e giustizia alla causa Regeni. Dopo la richiesta dell’allora presidente della Camera Roberto Fico di un processo serio, si conclude il 2018 con l’iscrizione nel registro di indagati da parte della Procura di Roma di alcuni dei nove soggetti, tra poliziotti egiziani e agenti del servizio segreto civile, ritenuti coinvolti.

2019: Il 30 aprile viene istituita una Commissione monocamerale d’inchiesta sulla morte di Giulio Regeni, alla quale sono affidati gli stessi poteri della magistratura allo scopo di accertare le responsabilità relative al caso. Pochi giorni dopo, un testimone auricolare afferma ai legali di Giulio di aver ascoltato una conversazione, nell’agosto del 2017, tra un funzionario dell’intelligence egiziana e un collega, dove il primo dichiara di aver preso parte del sequestro di Giulio.

Foto di Carolina Torres