Italia-Libia, una storia di amicizia
La Libia, alle prese con l'ennesima guerra civile degli ultimi anni, ha una relazione millenaria con l'Italia.
La Libia, alle prese con l'ennesima guerra civile degli ultimi anni, ha una relazione millenaria con l'Italia.
L ’attuale crisi politica in Libia tiene occupati molti Stati, dall’Europa alla Russia, fino a Turchia e ai Paesi che si affacciano sul Golfo Persico, tutti interessati per diverse (ma non troppo dissimili) ragioni a intestarsi il processo di rappacificazione tra i due governi antagonisti. La situazione al momento è questa:
Per tentare di comprendere le cause del presente conflitto, non si può ignorare la storia di questo tribolato Paese, in quanto i suoi principali problemi, la sua forte frammentazione e i potentati tribali, sono solo il frutto di secoli ripetute invasioni, che hanno visto sempre nuovi padroni. Al fine di rendere più digeribile una questione molto complessa, decidiamo di cavalcare l’indole separatista insita nella Libia, dividendo la storia di questo grande Paese in due ère convenzionali, prima e dopo il 2011, l’anno delle spinte democratiche della cosiddetta “primavera araba”, in cui ha veramente inizio la fine del dittatore Gheddafi.
Regione dai labili confini ma dalla posizione strategica, fu spesso utilizzata dai governanti come merce di scambio nei trattati di guerra e pace: fin dall’antichità, la regione orientale della Cirenaica divenne colonia fenicia, poi greca, Persiana con Alessandro, di nuovo greca e infine Cartaginese.
Intorno all’anno 100 a.C., con la vittoria sui Cartaginesi, i Romani unificarono le due macro regioni e garantirono per secoli crescita e benessere alla popolazione, raccolta per la prima volta sotto un sistema legale unitario e orgogliosa di una forte identità romana. Con il declino dell’Impero e l’invasione dei Vandali, si ricrearono invece i presupposti di disgregazione e rivalità tribale che portarono all’invasione persiana, intorno al 650 d.C. . Con il califfato di Damasco torna anche la divisione ufficiale tra le regioni, con scià diversi, e si accentuano i conflitti tra musulmani, tra le tribù fedeli al ramo religioso shiita e quello sunnita, terreno fertile per l’incombente trasformazione in Stato arabo a tutti gli effetti.
Nel Medioevo, la Libia si trova di nuovo al centro degli scambi tra potenze, con l’insediamento dei Normanni dalla Sicilia, l’annessione temporanea a Marocco e Tunisia, il protettorato dei Cavalieri di San Giovanni (Malta e Gerusalemme) fino ad arrivare, nel 1500, al dominio ottomano, dapprima nella sola Cirenaica e dal ‘600 anche in Tripolitania, area importante per il commercio ma anche per la tratta degli schiavi, in cui la Libia tristemente si distingueva. Impossibile non fare un parallelo con il traffico più o meno lecito di esseri umani che tuttora vede il Paese in prima linea nella direttrice sud-nord: se sei bravo a fare qualcosa, non pare il caso di smettere, si potrebbe cinicamente commentare.
Dal 1912, in seguito alla Campagna italiana di Libia e alla vittoria contro i turchi, le due regioni separate di Tripolitania e Cirenaica diventano colonie dell’Italia. L’occupazione italiana mostra due volti, in forte contraddizione: da un lato, il Governo italiano investe nel Paese, migliorandone le infrastrutture, creando una rete ferroviaria e stabilendo le prime industrie, oltre a modernizzare il settore agricolo; dall’altro sono numerosi i casi di repressione e tortura contro i dissidenti, di limitazione delle libertà civili e di sfruttamento di una forma di schiavitù subdola, sotto traccia. Si stimano in oltre 30.000 le vittime delle rappresaglie italiane, durante le quali circa metà della popolazione beduina è stata sterminata. Un rapporto difficile, con forti recriminazioni per danni di guerra, che – come vedremo – avrà riflessi anche sull’epoca moderna.
Con la vittoria dell’Asse alleato nella Seconda Guerra Mondiale, dal 1945 la colonia italiana passa agli inglesi, con l’eccezione della regione del Fezzan, quella più meridionale nel deserto, che finisce sotto il dominio francese. Nel giro di pochi anni, i tempi diventano maturi per l’indipendenza, che viene ufficialmente proclamata da Re Idris I, un regnante illuminato che dà alla Libia la sua prima Costituzione: dopo secoli, finalmente, i libici avranno dei diritti riconosciuti e non solo obblighi verso il dominatore di turno. La Libia moderna, che nasce nel 1951, non sarà mai uno Stato laico; nella Costituzione però, accanto all’articolo in cui il Paese si definisce Stato Islamico, ne appare un altro contro ogni forma di discriminazione, politica, di genere e di religione. Per quasi vent’anni la situazione politica rimane stabile e la Libia prospera, anche grazie alla scoperta di numerosi giacimenti petroliferi. Purtroppo, come spesso accade, un boccone ricco attira i più avidi e golosi.
Nel 1969 Mu’ammar Gheddafi, a soli 27 anni, prende il potere con un golpe militare e negli anni seguenti sospende l’applicabilità della Costituzione e di tutte le leggi precedenti, adottando la Sharia come unica dottrina legislativa, che d’ora in avanti regolerà i rapporti umani e condurrà il Paese verso il fondamentalismo islamico. Gheddafi crea una corposa milizia di Sorveglianti della Sharia che controlla l’osservanza dei dettami religiosi da parte dei libici in tutti gli ambiti della vita sociale, dall’istruzione ai rapporti economici, fino a quelli interpersonali, specialmente tra uomo e donna. Il Colonnello inizia anche una lunga azione repressiva nei confronti dei “nemici della rivoluzione”, le cui esecuzioni vengono trasmesse dalla TV nazionale, e una rappresaglia feroce contro i rifugiati libici di rilievo, in numerosi attentati mortali nei rispettivi Paesi di accoglienza.
Nel 1977 rinomina il Paese in chiave spiccatamente islamica: Jamahiriya Araba Libica Popolare Socialista. Una deriva di onnipotenza che lo porta a tentare una velleitaria unificazione africana, nonché ad un coinvolgimento attivo nelle guerre in Chad e Niger. Il suo governo ha in effetti il sostegno della popolazione, arricchita dal boom petrolifero e con il reddito pro-capite più alto di tutta l’Africa. Gheddafi aumenta i salari minimi, fornisce sussidi energetici, abbassa gli affitti e introduce leggi progressiste, come quella sul consenso della donna alle nozze e sull’età minima di 16 anni per contrarre matrimonio, dichiarando fuorilegge le cosiddette spose-bambine, una pratica usuale nel mondo musulmano, purtroppo apprezzata anche dai colonialisti italiani.
Già nel 1974, con il governo Rumor, i rapporti con il nostro Paese tornano sereni e si pongono le basi per un un accordo di collaborazione economica, tecnica e scientifica, sancito ad esempio dall’acquisto di quota di Fiat da parte della società d’investimenti esteri dello Stato libico e dalla sostanziale neutralità assunta dall’Italia durante la crisi diplomatico-militare del 1986 con gli Stati Uniti e lo scandalo Lockerbie. C’è chi pensa che fu proprio Craxi, allora premier, a salvare la vita a Gheddafi, avvisandolo dell’imminente bombardamento americano di rappresaglia. Una Libia isolata trovò quindi nell’Italia l’unico Stato amico, in una relazione sostenuta anche dall’Unione Europea che, dalla fine della Guerra Fredda, ha praticamente delegato l’Italia di trattare con il Rais su tutti i temi di interesse comunitario (sicurezza e migranti in primis).
Tutti abbiamo impresse nella memoria le immagini del 2003, quando il colonnello Gheddafi trasferì un vero e proprio accampamento a Roma, durante i negoziati per gli indennizzi di guerra facilitati dal governo Berlusconi. Il fasto dell’accoglienza riservata al dittatore e gli sforzi per limare il divario culturale messo a nudo (ma prontamente coperto!) dalle delegazioni in alta uniforme. Gli impegni presi da Berlusconi per la costruzione dell’autostrada Tripoli-Bengasi come indennizzo definitivo, furono confermati dai successivi governi Prodi. Di pari passo, migliorarono i rapporti commerciali, fino alla partnership tra Eni e la libica INOC per il progetto del gasdotto del mediterraneo Greenstream e il successivo “Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione”, firmato a Bengasi nel 2008, seguito dagli importanti investimenti su suolo di libico di molte compagnie strategiche italiane, come Unicredit, Ansaldo, Impregilo, Finmeccanica e Beretta, oltre alla già citata Eni.
Possiamo dire quindi che l’Italia, nel momento dello scoppio delle ribellioni democratiche del Nordafrica, si presentasse all’apice della sua influenza diplomatico-economica sulla Libia. È evidente che il nostro Paese non avesse nulla da guadagnare in una nuova rivoluzione e avrebbe senz’altro preferito preservare lo stato delle cose. Altrettanto evidente è che lo scenario internazionale era nel frattempo cambiato, sabotando di fatto la strategia italiana. Nel prossimo articolo, vedremo come e quale sia stata la portata delle drammatiche decisioni internazionali, passate sopra la testa del nostro Paese.