Cina vs Resto del Mondo nella “guerra fredda” globale
Le dinamiche geopolitiche attuali ricordano molto - secondo il giornalista Federico Rampini - quelle della prima guerra fredda. Ma con altri protagonisti.
Le dinamiche geopolitiche attuali ricordano molto - secondo il giornalista Federico Rampini - quelle della prima guerra fredda. Ma con altri protagonisti.
L’attualità, oggi, ci parla di Iran e Libia, ma in Europa a fine mese scatterà la Brexit e Oltreoceano, negli USA, a novembre ci saranno le nuove presidenziali. Nel frattempo la Cina accelera sempre di più la propria economia e si candida a diventare una Superpotenza mondiale, unica vera alternativa agli Stati Uniti, tenendo conto anche della fragile economia russa e di un’Europa sempre più inconsistente. Di tutto questo – e molto altro – parla il giornalista di “Repubblica” Federico Rampini nel suo libro La seconda guerra fredda (con il significativo sottotitolo Lo scontro per il nuovo dominio globale), che paragona l’attuale situazione geopolitica a quella che ha caratterizzato per alcuni decenni la storia del mondo, dal secondo Dopoguerra fino al 1989 e alla caduta del Muro di Berlino. Ieri il giornalista, nato a Genova nel 1956 e residente da dieci anni negli Stati Uniti dopo aver a lungo fatto il corrispondente proprio in Cina, è venuto a Verona e ha raccontato i nuovi scenari mondiali in un’affollatissima Sala Convegni di Banco BPM, nell’ambito della rassegna “Incontri con l’Autore”, ideata e promossa dall’istituto di credito di Piazza Nogara.
Rampini, cosa può fare l’Occidente per contrastare la Cina in questa nuova “Guerra Fredda”, come lei l’ha definita nella sua ultima opera?
«L’Occidente è un soggetto che non c’è più. L’America e l’Europa non sono una cosa sola da tempo, ormai e l’Alleanza Atlantica è agli sgoccioli. Forse è proprio la mancanza di un’idea di Occidente il nostro problema di fronte allo strapotere della Cina, che ha al contrario una visione piuttosto compatta di sistema e di universo di valori. Penso ovviamente alla classe dirigente, e non necessariamente a tutta la popolazione, capace di fare piani a lunghissimo termine. Al contrario fare piani anche “solo” a vent’anni è diventato praticamente impossibile per qualunque Paese occidentale. Dovremmo forse ripartire dalla ricostruzione di un’idea di Occidente: che cosa vogliamo essere e in quali valori comuni vogliamo credere. Senza questi vorrebbe dire affrontare la seconda guerra fredda un po’ in ordine sparso, ognuno per sé, senza strumenti.»
La Cina negli ultimi quindici anni ha avuto una crescita economica e tecnologica esponenziale, dimostrando di saper imparare velocemente dai propri modelli, che inizialmente erano proprio quelli occidentali. L’abbiamo forse sottovalutata?
«Questo è un ragionamento che fa chi è umile. Si ammette che si è ignoranti in partenza e si studia e i cinesi a un certo punto della loro storia hanno cominciato con una grande dose di umiltà a rimboccarsi le maniche e a darsi da fare per recuperare il gap. Hanno inizialmente copiato da noi perché pensavano che noi fossimo migliori di loro. Forse, però, è adesso arrivato il momento di cominciare a studiare da parte nostra un po’ l’Asia. Loro, infatti, sanno molto di più di noi di quanto noi sappiamo di loro. E oggi il consumatore cinese compra soprattutto cinese, ma non per nazionalismo o perché costa di meno, ma perché fondamentalmente pensa che la qualità del suo prodotto sia migliore di quello occidentale. A livello tecnologico hanno fatto passi da gigante negli ultimi quindici anni e oggi sono all’avanguardia in molti settori strategici, dall’intelligenza artificiale al riconoscimento biometrico facciale alla diffusione del 5G (che permetterà alle auto elettriche di funzionare perfettamente).»
A questo processo ha provato ad opporsi il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump?
«Ha capito qualcosa delle ragioni per cui c’è stato un distacco fra le classi lavoratrici e popolari e la vecchia sinistra. Ha intuito cosa stesse accadendo nella profondità dell’America, laddove molti strati della popolazione si sono sentiti traditi dalle promesse della globalizzazione, in particolare su due punti fondamentali: la Cina, appunto, e l’apertura al commercio globale, da una parte, e l’immigrazione, dall’altra. Lui ha qualcosa nella pancia che gli ha fatto sentire cosa ribolliva in quella parte del suo Paese sconvolta dalla concorrenza con la Cina, impoverita dall’apertura delle frontiere e devastata dalla chiusura di fabbriche, che hanno smantellato l’industria manifatturiera americana ed esportato posti di lavoro dal Messico alla Cina. Una Cina che, man mano che diventava più ricca, distorceva le regole del commercio internazionale a proprio uso e consumo. Nella vicenda dei dazi Trump altro non ha fatto che quello che da molto prima fa la Cina, cioè la guerra commerciale ai prodotti occidentali, guerra che stavano stravincendo fino a quando non è appunto arrivato Trump a cercare di fermare quell’ingranaggio per noi distruttivo.»
Un processo che in qualche modo noi abbiamo favorito…
«Quando noi occidentali, ma soprattutto l’America, abbiamo negoziato l’ingresso della Cina nel WTO, il grande Paese asiatico era poverissimo. Abbiamo in quell’occasione stabilito delle regole che poi, nel tempo, si sono ritorte contro di noi. E che oggi, via via che la Cina ha cominciato a sviluppare un’economia più simile al Giappone o alla Corea del Sud, sono a tutti gli effetti delle armi economiche micidiali.»
In questo momento, però, la Cina è alle prese con la “spina nel fianco” rappresentata da Hong Kong. Come giudica l’atteggiamento attuale di Xi Jinping?
«Purtroppo Hong Kong è sempre meno importante per la Cina. È una piazza finanziaria che ancora conta, è vero, ma non ha più il ruolo ricoperto anche solo dieci o vent’anni fa. Pian piano i cinesi hanno scientificamente trasferito il cuore della finanza verso Shanghai o altre piazze e le multinazionali di Hong Kong non hanno più quel peso specifico rispetto a quel capitalismo cinese che esiste da altre parti. Il leader cinese è stato molto prudente su Hong Kong non volendo un inutile spargimento di sangue (in stile Piazza Tienanmen, per intenderci) che, fra l’altro, lo metterebbe in cattiva luce nei confronti del resto del mondo. Anche perché il vero obiettivo della Cina è in realtà Taiwan: la popolazione di quel luogo guarda con angoscia a ciò che sta avvenendo proprio ad Honk Kong e si chiede cosa succederà in caso di riunificazione. In questo senso Xi Jinping sta lanciando dei messaggi di moderazione, per risultare rassicurante nei loro confronti. Rimane Hong Kong un’anomalia nel sistema: popolata etnicamente da cinesi abituati progressivamente alla democrazia, in qualche modo smentisce il teorema confuciano che in una città asiatica la democrazia è superflua. Una contraddizione che nel lungo periodo potrebbe anche un giorno portare all’implosione di quello stesso sistema. Una crisi cinese, fra l’altro, potrebbe benissimo incrociare la storia della seconda guerra fredda, come peraltro ci sono state delle crisi dell’URSS o degli USA durante la prima guerra fredda.»
L’Europa, in tutto questo, appare quasi impotente, divisa com’è al suo interno senza un vero leader e alle prese con la Brexit…
«L’Europa prima o poi dovrà fare delle scelte. Dovremo darci dei codici di regole su come valutare, ammettere o bocciare gli investimenti cinesi. Non abbiamo regole comuni. Il Portogallo e la Grecia sono, di fatto, delle colonie cinesi e i risultati si vedono. Quando il Consiglio europeo ha votato un documento di condanna sui recenti fatti di Hong Kong, da parte di quei Paesi è scattato il veto. La Cina è dentro all’Unione Europea, visto che c’è chi sta già prendendo ordini. E la stessa cosa sta accadendo in molti Paesi dell’Africa, dove i cinesi stanno portando lavoro, strade, scuole e molto altro. Sono degli sfruttatori di manodopera a basso costo, ma per molti aspetti vengono visti come dei benefattori. L’Europa da parte sua farebbe bene a darsi una mossa e di sicuro in tutto questo non credo sia stata una buona idea spingere un potenziale alleato come la Russia di Putin proprio verso la Cina, visto che l’alleanza che si sta creando, ben diversa da quella di tipo ideologico degli anni della prima guerra fredda, può sbilanciare e non poco l’attuale conflitto economico e politico mondiale.»
Veniamo alla più stretta attualità. In Iran alla fine Trump sembra aver vinto su tutta la linea, ma forse le vere conseguenze della morte di Soleimani le vedremo fra molti mesi o no?
«La guerra fredda non impedisce le cosiddette “guerre calde”. Qualche giorno fa, però, credo che si sia di nuovo scivolati nella “sindrome dell’apocalisse”. Un po’ troppo velocemente i media di tutto il mondo hanno gridato alla Terza guerra mondiale, dimostrando che ormai i nervi saldi li hanno in pochi. Gli sviluppi delle ultime ore, invece, sembrerebbero indicare che sia Trump sia Khamenei, la guida suprema della maggioranza sciita alla guida dell’Iran, stiano facendo prove di “raffreddamento”. Il conflitto, è bene chiarire, di certo non nasce con Donald Trump. Questo episodio è soltanto l’ultimo capitolo di una tensione che come minimo dobbiamo far risalire al 1979 con il rovesciamento dello Scià di Persia, accolto negli Stati Uniti da Jimmy Carter, e lo scoppio del fondamentalismo. Nello stesso periodo c’era stata una occupazione della Moschea Grande a La Mecca da parte dei fondamentalisti sunniti e la monarchia Saudita, per salvarsi, decise di copiare l’Iran facendo un’alleanza con il clero più conservatore. Fino a quell’anno si trattava di Paesi abbastanza moderni, con diritti per le donne non molto diversi da quelli occidentali. Nel 1979, purtroppo, si ritornò al Medioevo. In quello stesso anno ci fu pure l’invasione sovietica in Afghanistan, ma anche la Rivoluzione Cinese, il congelamento del programma nucleare negli Stati Uniti e molto altro. È una guerra, di fatto, che dura da quarant’anni quella che sta continuando nel Golfo. Ogni tanto ci sono le guerre “combattute” con i conflitti Iran-Iraq 1980-1988, la prima e la seconda Guerra del Golfo ecc. I fattori endogeni, comunque, sono molto più importanti di quel che crediamo. I vecchi colonialisti bianchi pensano sempre che tutto ciò che accade nel mondo debba avere una spiegazione riconducibile all’Occidente, ma non è più così da tanto tempo.»
Nel frattempo venti di guerra soffiano anche in Libia?
«Tutto il Medio Oriente e il Nordafrica è di nuovo in turbolenza e instabilità con enormi problemi per noi che ci viviamo vicino. Una delle poste in gioco, ovviamente, è quella dell’energia. Il gas, il petrolio e via dicendo. L’America ha le mani molto più libere di noi, anche se quell’energia rimane essenziale soprattutto per la Cina, il Giappone, l’India e anche per alcuni Paesi europei. Senza girarci troppo attorno, in questo momento in quei teatri conta di più chi ha il coraggio di mettere gli scarponi sul terreno e di rischiare vite umane. Chi sta assumendo un ruolo incisivo sono Putin ed Erdogan (Premier turco, nda) che non si fanno problemi a inviare truppe nell’area e non sono spaventati all’idea che quegli uomini possano morire per il petrolio libico. Noi europei non vogliamo più essere chiamati dentro questo gioco. Abbiamo abbracciato anni fa, quando cadde il Muro di Berlino, una teoria meravigliosa, quella della prima potenza “erbivora” della storia. Una superpotenza che fonda la propria influenza mondiale solo sul soft power, il potere dolce, quello cioè delle regole, dei diritti, dei valori, dei principi, della diplomazia e della conoscenza, ma non quella delle armi. Una cosa bellissima, ma impraticabile, soprattutto oggi, dove conta la logica bruta dei rapporti di forza e dove chi ha la forza conta e chi non ce l’ha conta sempre meno. Nessun paese europeo vuole più rischiare questo genere di mosse. Un solo soldato ferito crea una crisi interna. E un erbivoro, circondato da animali carnivori, di solito fa una brutta fine»