Tutto nella nostra vita è frutto di un calcolo, più o meno cosciente. Quando affrontiamo un gradino, risolviamo un problema di geometria, mentre mettiamo sul fuoco la moka decidiamo se avremo il tempo per andare a chiudere la finestra prima che il caffè allaghi il fornello. In auto i nostri occhi-mani-piedi si interfacciano per risolvere l’equazione del tempo di frenata e ogni volta che parcheggiamo in parallelo, beh nel nostro cervello esplodono almeno dieci nozioni sepolte di geometria, trigonometria e anche meccanica quantistica, nello specifico applicate a quante botte si possono dare a un paraurti senza che si veda.

La matematica fa parte integrante della nostra esistenza e si infila nei gesti quotidiani e in ogni piccola decisione che prendiamo, trasmettendoci la forza che solo un sistema chiuso, fatto di regole auree e inattaccabili ci può dare. Ci sentiamo sicuri perché «l’aritmetica non è un’opinione» (cit. Bernardino Grimaldi, politico del 1800 che potrebbe insegnare molto alle coalizioni colorate dei giorni nostri), perché restiamo all’interno di regole di ferro, accettate e condivise dagli altri. Ogni volta che applichiamo sonnecchiando il codice della strada, mentre siamo fermi allo stop o guidando per la città con la musica a palla, siamo sicuri che anche gli altri lo faranno, si fermeranno per darci la precedenza, segnaleranno la svolta con una bella freccia lampeggiante e no, non si metterebbero mai alla guida se non in grado di dare alla strada la giusta attenzione.

Ma l’analisi matematica ha teorizzato anche un concetto affascinante, quello del limite di funzione, limite che si incontra quando al crescere di un valore, i termini risultanti dalla funzione sono “arbitrariamente vicini” a quel valore. Un calcolo sbagliato, un’equazione applicata male, un segno scritto di fretta, uno sguardo fuori dalla finestra e l’ampolla sul Bundsen va in frantumi, spandendo una nebbia tutto intorno. Ecco quindi che le regole inattaccabili del 2+2 si scontrano con il confine spesso labile tra dentro e fuori, giusto e sbagliato, vita e morte. Tra attraversare una strada di corsa e aspettare un altro attimo, tra accelerare per prendere il semaforo verde oppure alzare il piede e sorridere agli amici.

A New York si usa un’espressione, riportata su milioni di gadget e magliette, che racchiude in due parole il senso di impotenza che si prova quando il gas nell’ampolla è tutto evaporato e rimaniamo a guardare lo scempio del nostro laboratorio: shit happens. È una crasi che trasforma “It happens” (cioè: capita!) nella nota parola che traduce l’italica cacca.

Un po’ come quando Freak Antony ci ammoniva durante i suoi epici concerti di stare attenti che «l’amore è cieco, ma la sfiga ci vede benissimo!». Sbagliare un calcolo si può, mettere il piede sul sasso sbagliato capita, decidere di saltare dal binario ferroviario un secondo troppo tardi può accadere. Vite spese alla ricerca del limite della propria funzione, nello sport o nella ricerca; vite sprecate per volerlo spingere troppo in là questo punto di non ritorno. Non sappiamo cosa ci spinga davvero, in quel momento, a saltare o correre o alzarci e parlare. Facciamo un calcolo rapidissimo e decidiamo che le probabilità sono tutte a nostro favore, che ce la possiamo fare. A volte, come nel caso delle due ragazze romane, ci si conforta con le certezze dell’altro, altre siamo soli davanti al torrente, la riva a poco più di un metro da noi e mentre saltiamo, in un arco pensato nella testa e spinto dalle gambe, non c’è posto per il fallimento, siamo sicuri che andrà tutto bene.

La vita è il miglior risultato possibile dei nostri errori di calcolo. Riuscire a sopravvivere ai propri sbagli, poter provare a rimediare, a correggere la traiettoria, quello è il bosone erratico che si incastra al momento giusto nel posto giusto, la morte nasona che sfiora la falda del nostro cappotto senza riuscire ad aggrapparsi. È Dio o la matematica che ci salva? Chi ha fede prova una grande consolazione nel sentirsi parte di un disegno e riesce ad affrontare con spirito stoico le avversità, le morti ingiuste, sbagliate, irrazionali. Dio chiama a sé i suoi figli per dar loro un posto nel Regno eterno, quando i suoi figli invece si accontenterebbero di sapere perché, di capire cosa, come e quando è andato tutto storto.

Davanti a tragedie come quella che ha tolto la vita a due ragazze e rovinato quella di uno poco più grande, davanti dal dolore enorme di tutte queste famiglie distrutte, ci si dovrebbe soltanto chiudere in silenzio, religioso o ateo che sia. Ognuno dovrebbe pensare a tutte le volte in cui ha guidato dopo un paio di birre, sicuro che nessuno avrebbe attraversato improvvisamente al buio; alle volte che un passo in una direzione gli ha distrutto la vita, due parole hanno cancellato una persona dalla sua esistenza; a tutti gli errori di valutazione, alla sensazione di onnipotenza, allo sprezzo del pericolo che tutti noi abbiamo provato da giovani e cercato di domare in qualche modo da adulti.

Invece, scatta qualcosa una sorta di voyeurismo morboso, un antichissimo “mors tua vita mea” che impedisce di avere rispetto, che pretende dettagli macabri, vuole vedere il sangue e appendere l’assassino all’albero più alto. La gente sarebbe già abbastanza cattiva di suo, senza essere istigata da giornali che, come sciacalli, spolpano la storia e ne fanno dieci mille articoli acchiappa-click, che guadagnano le loro ricchezze (eh sì, la visibilità è merce, i vostri click valgono milioni) sulla pelle dei morti, sulla disperazione dei sopravvissuti. Parte un processo mediatico senza appello, che mette sulla sedia elettrica un ragazzo che ha commesso un grave errore proprio nello stesso momento in cui Gaia e Camilla avevano deciso di correre un rischio (si guardano per un nanosecondo attraverso il parabrezza, ciascuno con gli occhi sgranati di fronte all’enormità del proprio sbaglio, come gatti accecati dai fari). Le colpe andranno accertate dai rilievi scientifici, in un tribunale imparziale che applichi leggi giuste, non certo per strada o al bar prendendo per veri i titoloni dei quotidiani spesso smentiti due righe dopo, nello stesso articolo.

I calcoli non ammettono sviste né eccezioni. Chi ha fatto un errore lo paga, sempre. Siamo stati tutti almeno una volta colpevoli e sappiamo che il prezzo è alto e non sempre equo. A volte viene incassato tutto e subito, altre non basta una vita intera. Qualcuno trova forza in Dio, qualcuno la cerca in una sentenza, nell’applicazione delle regole, ma si può ricominciare a vivere soltanto nel momento in cui si ottiene il perdono di chi abbiamo offeso, ma ancor di più quando noi siamo in grado di perdonare noi stessi. La vera libertà dal peso enorme di un errore viene da dentro di noi, dall’accettazione che la matematica e Dio, forse, sono la stessa cosa.

Auguro ai nostri lettori un anno pieno zeppo di errori riparabili, di curiosità verso l’ignoto con uno zaino pieno di libri, di colpi di testa coi piedi per terra e anche della grandissima fortuna di sentirsi perdonati.

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