Cosa significa vivere da rifugiati in un Paese straniero? Cosa significa essersi lasciati alle spalle guerre e miseria e avere all’orizzonte come unica prospettiva quella di vivere anni in un campo profughi, senza alcuna possibilità di muoversi da lì? Cosa significa vivere senza avere alcun appiglio morale se non l’incrollabile fede in un sentimento di solidarietà umana? E, dall’altra parte, cosa significa per una piccola comunità – già alle prese con enormi difficoltà economiche e sociali – accogliere migliaia di richiedenti asilo provenienti da tutto il mondo? Cosa significa vedere (o percepire) le proprie limitatissime risorse condivise con altri individui, che diventano per molti il nemico o lo spauracchio da sventolare per ottenere vantaggi di natura politica o economica? Di sicuro non è facile immaginarlo. Sono situazioni che sono gli opposti e allo stesso tempo rappresentano gli ingranaggi di meccanismi complessi, molto difficili da comprendere. Di certo, però, stiamo parlando di situazioni che spesso sfociano in pericolose guerre fra poveri, quando in realtà la convivenza e il superamento della crisi possono essere comunque trovati. Insieme.

Alex Nezam

A queste e ad altre domande prova a dare risposta un interessante documentario dal titolo “We are not together”, che verrà presentato domenica alle 17 presso il Teatro Fonderia Aperta (ingresso libero) di Verona. Lo ha realizzato un trentenne americano, Alex Nezam. Nato a Saint Louis (Missouri – Stati Uniti) da mamma irlandese e padre indiano, Nezam ha studiato produzione cinematografica alla Webster University. Dopo aver studiato anche enologia, alcuni anni fa, nel 2016, si è recato in Grecia per insegnare, da volontario, la lingua inglese ai rifugiati, arrivati in quel periodo a migliaia nel piccolo paese ellenico. Dopo aver vissuto per mesi ad Atene nel sobborgo di Esarchia (la cosiddetta “città dell’anarchia”) e aver assistito a infiniti ritratti semplificati e distaccati da parte dei media mainstream, ha deciso di rispolverare le sue competenze cinematografiche e realizzare un docufilm – il suo primo lungometraggio – per raccontare ciò che secondo lui non veniva raccontato correttamente di una situazione drammatica come quella specifica emergenza umanitaria. E lo ha fatto con un’opera che va dritta al cuore, o se preferite alla pancia, delle persone. Con un punto di vista totalmente diverso da quanto fatto in precedenza, Nezam ci consente di ascoltare direttamente le persone più colpite da quella situazione.

Il film offre allo spettatore uno sguardo onesto e multiforme sulle decine di migliaia di persone intrappolate da anni in quel lembo di terra chiamata Grecia, un paese ricco di storia e culla della democrazia, ma tutt’oggi al centro di continui tumulti politici. Soprattutto dopo la chiusura dei confini europei nel 2016. Ed è questo il punto. Vi si trovano, nella pellicola, le esperienze di gruppi diversi di persone, qui tutti ben rappresentati: greci, volontari internazionali e, ovviamente, rifugiati. Tutti si danno da fare, nel loro piccolo, per trovare un significato profondo a quanto stanno vivendo. Funzionando come una sorta di microcosmo del clima politico globale, Atene offre uno spaccato saturo di sentimenti: odio, amore, gratitudine, speranza, amicizia, distacco emotivo e via dicendo. Ma ciò che conta è che un fiorente movimento di solidarietà si insinua fra gli edifici abbandonati e dà rifugio ai più vulnerabili, e “We Are Not Together” offre una prova tangibile della sorprendente interazione che può esistere tra migranti, anarchici politici e le strutture di potere che hanno lo scopo, in teoria, di proteggerli.

Nezam, partiamo dalle origini. Come è arrivato in Italia e in particolare a Verona?

«Mia moglie italiana, di Verona… anzi, in particolare della Valpolicella. L’ho conosciuta proprio in Grecia. Anche lei era lì volontaria. Lei insegnava italiano e io inglese. Ci siamo innamorati e così sono venuto a vivere qui con lei.»

Come è nata l’idea di questo documentario?

«Sono andato in Grecia due volte: nel 2016 e nel 2017, in entrambe le occasioni per circa tre mesi. Ho potuto, grazie a questa esperienza, capire qual’era la situazione dei rifugiati, ma anche delle persone del sobborgo di Esarchia e volevo condividere questo progetto con più gente possibile, per far conoscere quello che avevo compreso io e che è molto diverso da ciò che viene descritto dai media. Insomma, volevo provare a spiegare bene cosa è successo, cosa succede e cosa continuerà, probabilmente, a succedere.»

Exarchia è un luogo molto particolare…

«Si, ha alle spalle una storia importante di conflitto politico fra la società civile e gli anarchici. E lì oggi vivono migliaia di rifugiati. Una situazione, quindi, potenzialmente esplosiva e in mezzo, ovviamente, ci sono i greci.»

Cos’ha pensato di fare?

«Io e un altro ragazzo, Tony Burgesen, abbiamo acquistato alcune mini-telecamere e le abbiamo distribuite a diverse persone che vivono ad Exarchia, in tanti posti diversi: nella cittadina, nel campo profughi, fra i volontari e via dicendo. L’intento era quello di democratizzare la narrativa mediatica e così abbiamo scelto soggetti che potevano realizzare da soli le riprese e controllare la propria rappresentazione di sé. Non abbiamo dato particolari indicazioni, ma abbiamo scelto persone di varia estrazione e natura, dalla madre single nel campo di Moria sull’isola di Lesbo fino all’anarchico greco che vive in un hotel occupato ad Atene, ma anche un volontario, un profugo e così via. Ogni persona del film porta in dote la propria voce e il proprio dramma. Senza filtri e senza la mediazione dei giornali o delle televisioni. Alla fine di questo periodo di riprese abbiamo raccolto tutto il materiale e lo abbiamo montato, realizzando un affresco corale e restituendo una visione di questo posto, caratterizzato da tanti conflitti.»

A proposito: da dove arrivano i rifugiati di Exarchia?

«Da diversi Paesi dell’Asia e dell’Africa: in particolare dall’Iran, dalla Siria, dall’Afghanistan, dal Pakistan e dal Mali. Tante storie diverse con tanti giovani, anche se c’è anche qualche rifugiato più anziano. La maggioranza di loro sono uomini, il che è una realtà che va affrontata. E la cooperazione non riesce a risolvere tutti i problemi di convivenza.»

Qual’era il suo intento?

«Questo non è un film propagandistico e non suggerisce una soluzione al problema. Anzi… Volevo, però, dare una rappresentazione fedele dei soggetti. Avendo visto troppi video sulla crisi dei rifugiati nel Mediterraneo che trattano le persone oppresse con un livello di distacco a dir poco surreale, per me è sempre stato prioritario mostrare la complessità della loro personalità. E dare loro la telecamere e chiedere loro di raccontarsi è stato il modo che ho ritenuto più efficace per ottenere questo obiettivo.»

Che cosa pensa di aver ottenuto con quest’opera?

«Credo che se ci fermiamo a guardare le persone reali al di là dei titoli, delle notizie e dei tanti cliché che ci sono stati proposti da quando è iniziata questa ondata di migrazione di massa, possiamo renderci più informati e consapevoli e farci un’idea moralmente più fondata di quanto sta avvenendo a relativamente pochi chilometri da casa nostra. Nel mio film si trova qualcosa di autentico e personale. Dal mio punto di vista, questo era il mezzo ideale per creare una reale empatia fra spettatore e soggetti rappresentati ed è questo il vero valore che il mezzo cinematografico può regalare, sopra ad ogni altra cosa.»

E a livello personale cos’ha imparato da questa esperienza?

«Ho cominciato ad ammirare i greci, che sono anch’essi vittime di difficoltà economiche e di questa situazione legata all’immigrazione. Ci sono tantissimi immigrati che girano per Atene e ci sono tantissimi rifugiati senza lavoro, una casa, senza niente. Loro, i greci, sono molto arrabbiati e non a caso alcuni partiti di estrema destra stanno prendendo sempre più consenso politico. Ma al di là di questo ho grande rispetto per la resilienza che sta dimostrando la società, la cultura e in generale il popolo greco. Un’altra cosa che ho imparato è che il rifugiato non è un’unica entità astratta. Fra i rifugiati ci sono tantissime personalità diverse, con esigenze diverse, caratteri e culture diverse. Ma allo stesso tempo grazie a questo documentario ho potuto capire che siamo davvero tutti uguali, un unico grande popolo, pur nelle varie diversità. Può sembrare anche questo un cliché, ma quando li vedi tutti insieme, europei, africani e asiatici, che affrontano le stesse difficoltà e gli stessi problemi quotidiani, noti che hanno più o meno le stesse reazioni, lo stesso modo di desiderare, di crescere, di cambiare. Ma te ne accorgi anche da cose più semplici, come i gusti in cucina. Banalmente la pizza piace a tutti. Amiamo, mangiamo, adoriamo le stesse cose. Ho scoperto che il wrestling è molto popolare nel mondo e da americano non me lo sarei mai aspettato, pensando che fosse una nostra prerogativa. Insomma, alla fine la conoscenza, ancora una volta, allarga gli orizzonti… »

Il suo è un film destinato a crescere?

«Non lo so, ma di certo non è ancora completo. Ogni tanto, nel montaggio, aggiungo una scena qui, dei sottotitoli là. Ora dura circa un’ora, ma sto facendo delle piccole aggiunte per contestualizzare meglio la situazione e aiutare lo spettatore a comprendere meglio alcune dinamiche che emergono nel film.»

Infine, perché l’avete intitolato “We are not together”?

«È una frase che dice un ragazzo nel film. Quello che significa per lui, a dire il vero, non lo so, ma per certi aspetti credo che sia meglio così.»

Tutti i frame a corredo dell’articolo sono tratti dal docufilm “We are not together”