E se l’eugenetica fosse oramai un dato di fatto?
Anche sull'e-commerce la genetica diviene merce come qualsiasi altro prodotto. Proviamo qui a ragionare sulle implicazioni della banalizzazione della manipolazione genetica.
Anche sull'e-commerce la genetica diviene merce come qualsiasi altro prodotto. Proviamo qui a ragionare sulle implicazioni della banalizzazione della manipolazione genetica.
Gironzolando su Amazon per gli acquisti, trovo la possibilità di comperare un test sul mio DNA per conoscere le mie origini ancestrali; tra le altre cose, «potrai conoscere la tua predisposizione all’obesità, alla calvizie, l’allenamento adatto ai tuoi muscoli e persino la tua tolleranza all’alcol. Scopri le caratteristiche che ti rendono unico!». Interessante.
Qualche tempo fa la californiana MyOme e la Genomic Prediction (New Jersey) hanno presentato un progetto innovativo: uno screening genetico nei nascituri che misuri le probabilità di sviluppare un Q.I. molto inferiore o superiore alla media e che sia predittivo di malattie come diabete o alcuni tipi di cancro. Già oggi, comunque, il del DNA fetale è in grado di riconoscere al 99% la sindrome di Down, al 97% la sindrome di Edwards e al 92% la sindrome di Patau. A queste tecniche, si affiancano la villocentesi o amniocentesi e, per la fecondazione in vitro, la Diagnosi Genetica Preimpianto per altre malattie come la fibrosi cistica, la talassemia e, addirittura, il ritardo mentale.
Siamo già di fronte alla temuta ingegneria genetica, che nei film è incarnata dalla passione dei nazisti per la sperimentazione sugli internati dei campi o espressa da cupi scenari urbani alla Blade Runner?
A proposito di eugenetica nazista, diceva Hitler, che di Nazismo se ne intendeva: «Sparta va considerata come il primo stato Völkisch. L’esposizione dei bambini malati, deboli, deformi – in breve, la loro distruzione è stata più decente e in verità migliaia di volte più umana della miserevole follia dei giorni nostri, che protegge i soggetti più patologici a qualsiasi costo, e ciò nonostante toglie la vita, mediante la contraccezione o l’aborto – a centinaia di migliaia di bambini sani, solo per poi nutrire una razza di degenerati carichi di malattie”. Ovviamente, il punto di vista del cancelliere del Reich è oggi universalmente condannato.
Ma i fatti suggeriscono qualcos’altro. L’Islanda e la Danimarca, attraverso tecniche precise, oggi hanno ridotto quasi a zero i nati con la sindrome di Down, ma sono le famiglie (e non lo Stato) a decidere di interrompere la gravidanza. E questo fenomeno aumenta anche in Italia.
Ed ecco il punto. Il paventato genocidio degli embrioni di questa sindrome e di altre patologie starebbe avvenendo non per un arcaico retaggio culturale di una città come Sparta, per l’influsso del pensiero di filosofi del calibro di Platone e Aristotele o per ordine di un visionario capo di Stato, ma per libera scelta dei genitori. Quello che adesso si chiama “popolo”.
Ci troviamo dunque di fronte a un nuovo dilemma etico. Ci sono le ragioni dei genitori, che quel figlio dovranno curare, mantenere e crescere e di cui si preoccuperanno oltre la loro morte. Ci sono le ragioni dello Stato, che è scisso tra un’opinione pubblica contraria all’aborto (prevalentemente, ma non solo, religiosa) e che, d’altronde, è pure il garante del diritto all’autodeterminazione della donna e di un altro fronte dell’opinione pubblica, altrettanto corposo; senza contare, inoltre, il costo economico della disabilità a suo carico. Ci sono partiti politici che dichiarano di rappresentare le radici sane del “popolo”, lo stesso popolo che poi decide di fatto altrimenti. Ci sarebbero, (forse, o forse no) le ragioni dei nascituri che, dal punto di vista del diritto, hanno riconoscimento incerto e parziale, stante il loro appartenere al campo del non essere ancora.
Rimane inevasa, comunque, la domanda principale: è possibile trovare un giusto e un ingiusto in una situazione come questa?
Perché, di certo, da ex embrione ed ex feto non avrei gradito di venire soppresso poiché “difettoso” (o forse sì?); come, d’altronde, se fossi in attesa come padre avrei serie remore nell’accettarlo. D’altro canto, la società – e l’istinto di specie – premono per la sua sopravvivenza in nome di un naturale sentire, consci che la stessa Natura, però, sarebbe la prima a non farlo sopravvivere a lungo. Perché è scelta umana, solo umana. Il concetto di “natura” e”naturale”, tanto caro ad alcuni gruppi religiosi, qui non ha spazio: in questi casi, è leopardianamente matrigna come testimonia la scomparsa nel percorso evolutivo di varianti umane e le nulle chances di sopravvivenza allo stato naturale dei cuccioli malati.
Certo, un giorno, l’ingegneria genetica si spera sarà in grado di guarire quegli embrioni o quei feti (ma questo non risolverà, comunque, la questione sindrome di Down). Ma in prospettiva si dovrà intervenire sul corpo umano in questioni come la durata della vita, una maggiore resistenza, una maggiore intelligenza come ricerca della perfezione nell’essere umano o, più pragmaticamente, a fronte della sfida della conquista del cosmo (che, col deterioramento di questo pianeta, diventa sempre meno obiettivo velleitario e utopico), magari in modo diverso dalla soluzione presente nel fantascientifico film Moon. Perché, spazio o no, molti di noi, se potessero scegliere, non vorrebbero invecchiare, decadere e, magari, morire.
Ecco il tema di un dibattito che ora non c’è: l’uomo è quel che è o quello che, grazie alle sue scoperte, può decidere di diventare? In cosa consiste l’umanità?
Nel frattempo, mentre siamo impegnati a postare gattini o a insultare qualcuno sui social, stiamo delegando una questione tutta etica e sociale così importante al mercato e alle multinazionali, che di fatto sovvenzionano e direzionano la scienza, mentre la politica tace perché sa che elettoralmente ha solo da rimetterci e che non si può imporre a una famiglia cosa fare sulla sua pelle. Ora come ora – e questo è certo – non possiamo nemmeno permettere che il futuro dell’umanità sia deciso in silenzio, quasi per inerzia, dalle scelte economiche di enti al di fuori del controllo democratico.