Uomini che odiano le donne
Combattere la "violenza di genere" significa educare già in famiglia (ma anche a scuola, in palestra e in tutti campi della società) al rispetto.
Combattere la "violenza di genere" significa educare già in famiglia (ma anche a scuola, in palestra e in tutti campi della società) al rispetto.
L’Agenzia della Comunità Europea per i diritti fondamentali (FRA) ha condotto nel 2014 un sondaggio sui maltrattamenti di genere, intervistando quasi 50.000 donne tra i 18 e i 70 anni in rappresentanza di tutti i Paesi membri, allo scopo di dare una dimensione attendibile al problema e supportare il legislatore nella direzione da prendere.
Per quanto riguarda la violenza generica (intesa come fisica e psicologica), circa un terzo delle donne dichiara di averne subito più volte a partire dai 15 anni, l’8% negli ultimi 12 mesi. Sembra una percentuale piccola, ma corrisponde idealmente – pur con i limiti insiti nella scienza inesatta che è la statistica – a circa 13 milioni di donne europee. Le percentuali sono leggermente più basse in Italia ma parliamo sempre di un quarto della popolazione femminile. È un numero agghiacciante, che include la quota di chi ha subito una violenza sessuale vera e propria (intorno al 5%) e chi abusi di altro tipo.
Oltre all’aggressione fisica, non solo a finalità di stupro, infatti, esistono tipologie più striscianti di violenza psicologica, che arrivano a condizionare e influenzare le abitudini e lo stile di vita delle ragazze di ogni età.
Vogliamo qui concentrarci sul tema più circoscritto della violenza subita dal partner o dall’ex, che fin troppo spesso sfocia in femminicidio (75 in Italia al 31 ottobre 2019 secondo la ricerca “Uomini che odiano le donne. Come l’agenzia di stampa Ansa rappresenta i casi di femmicidio secondo la nazionalità dei protagonisti” a cura di Cristina Martini, sulle principali testate d’informazione italiana), una parola che pone l’accento sul motivo la vittima è stata uccisa: morta soltanto perché donna, perché parte evidentemente più debole di una coppia, presente o passata.
L’uomo talvolta non riesce proprio ad accettare la libertà femminile, che sia declinata come decisione di finire una storia oppure semplicemente di uscire con le amiche o tornare a studiare.
La violenza psicologica che avviene all’interno della coppia, fatta di umiliazioni continue, di minacce e divieti, fa già molto danno di per sé, ma quasi sempre degenera in violenza fisica. Quasi la metà (43%) delle intervistate dichiara di vivere o aver vissuto una situazione di questo tipo, confermando al tempo stesso il timore che queste violenze vengano denunciate pubblicamente solo in numero esiguo, e dopo numerosi episodi. È un fatto tristemente noto che mogli e conviventi di uomini aggressivi non ne parlano, minimizzano, inventano alibi e arrivano anche a chiamarlo Amore o a colpevolizzare se stesse; la vergogna è il primo motivo dichiarato per giustificare la mancata denuncia, retaggio di una cultura di sottomissione mai veramente sradicata. Ma c’è un’altra ragione su cui si può e si deve intervenire a livello sociale: le donne dicono di non sentirsi prese sul serio dalle forze dell’ordine, che sembra non abbiano le competenze e la sensibilità per affrontare la tematica, arrivando a consigli ottocenteschi su pazienza e dedizione della moglie. Verrebbe da sorridere se non fosse che questa è la realtà percepita in Europa, in Italia, nel Veneto.
Anche a Verona, come vedremo nel prossimo articolo. Molte ragazze e donne mature (purtroppo la violenza non ha età) preferiscono rivolgersi ai centri di ascolto che alle autorità, per timore di essere trasformate nelle colpevoli. Tutte temono e hanno ahimè sentito proferire la domanda “ma tu cosa hai fatto per scatenare la sua violenza?”, nelle accezioni più varie fino all’esecrabile “com’eri vestita?”.
La situazione peggiora ulteriormente quando si osservano i dati sulle molestie e persecuzioni da parte di ex partner o di sconosciuti; lo stalking viene ancora per lo più ignorato dalle vittime, che cercano quasi di rimuoverlo, mettendo in dubbio le proprie certezze. Noi donne siamo bravissime a trovare scuse per gli altri che non ammetteremmo mai per noi stesse. Ma in questo modo facciamo il gioco dei violenti. Michelle Hunziker, in uno spot per l’associazione Doppia Difesa, sostiene che chi non parla diventa complice del proprio aguzzino e, pur capendo lo spirito di un messaggio a così forte impatto, non si può che arrabbiarsi e urlare un secco NO, non siamo e non ci dobbiamo mai pensare come complici: chi usa la forza per ferire, umiliare e uccidere, indipendentemente dal sesso, resta il solo e unico colpevole, dimostra la sua più intima debolezza, la sua paura dell’abbandono, la sua incapacità di gestire un rifiuto.
Complice semmai è una società che arriva tardi, ma pian piano arriva, all’educazione sessuale nelle scuole, all’insegnamento del valore imprescindibile del rispetto e anche alla formulazione di leggi adeguate. Su questo fronte molto è stato fatto, a partire dalla prima legge del 1996 che istituiva il reato di violenza sessuale, poi allargato alla violenza domestica nel 2001 e alle persecuzioni (stalking) nel 2009; l’Italia nel 2011 ha anche ratificato la Convenzione di Istanbul (bel posto, per una normativa a protezione delle donne – NdA) che dà agli Stati linee guida per prevenire e contrastare il fenomeno. Ultime in ordine di tempo sono il Codice Rosso approvato in questi mesi, e il protocollo per le Aziende Sanitarie in tema di assistenza socio-sanitaria alle vittime. Sarebbe stato meraviglioso completare il quadro con direttive analoghe alle forze dell’ordine, istituendo un programma di formazione per accogliere e rendere meno gravoso il processo di denuncia formale. La legge ne parla ma si è fatto molto poco e la materia viene per ora lasciata alla sensibilità delle singole questure, che spesso non qualificano il personale ma si limitano ad individuare un gruppo di funzionarie donne, sperando nella complicità (qui sì) che nasce in questi casi.
È importante che si arrivi a considerare questa forma di violenza, per antonomasia la più intima e privata, come un problema di interesse pubblico, che lo Stato deve affrontare, prima di tutto mettendo al centro la vittima, poi applicando con severità le pene previste, ma sempre e comunque agendo ogni leva per educare gli uomini ad amare le donne, a riconoscere gli elementi di un’ossessione, a gestire le separazioni e i rifiuti.
Insegnare il rispetto inizia in famiglia, dai piccoli gesti quotidiani e dall’esempio dei genitori e dell’ambiente scolastico e ludico-sportivo. Non è un caso che due terzi dei violenti abbia assistito a violenze nella casa di provenienza. Forse questo è l’ambito più complesso da affrontare, ma vanno protetti anche i piccoli di famiglia, che subiscono una influenza psicologica terribile e vanno assistiti esattamente come le loro mamme. Anche più attentamente delle mamme, se vogliamo invertire il senso della spirale della violenza.
La violenza fa male. Fa male subito, ma con un po’ di fortuna si guarisce. Fa ancora più male nel tempo, ci rende timorosi verso nuove amicizie, ci induce a cambiare le nostre abitudini, condiziona molte nostre scelte e a volte impedisce di fatto la creazione di nuovi legami. È un percorso lungo ma anche da questo dolore si può lentamente guarire; non dobbiamo mai pensare di essere sole, anche quando tutto sembra indicarlo. Ci sono moltissime persone pronte ad ascoltare e, se richiesto, a dare una mano. L’aiuto c’è, dobbiamo solo imparare a chiederlo.