Aveva dodici anni quando nel Muro di Berlino si aprì un varco. «Stavo guardando la tv poco prima di andarmene a letto. Vidi scorrere sullo schermo la scritta in sovraimpressione che annunciava l’apertura del muro e che si poteva passare.» Un ricordo che segna definitivamente la biografia di Clemens Meyer, uno degli scrittori più rappresentativi della letteratura tedesca contemporanea, giunto a Verona, nelle sale del Goethe Zentrum, per presentare il suo ultimo libro, “Il silenzio dei satelliti”, da poco pubblicato con Keller e tradotto da Roberta Gado e Riccardo Cravero.
«Mia madre era un’attivista, apparteneva a un gruppo ambientalista religioso, perché era possibile riunirsi nelle chiese senza essere spiati o in pericolo. Mia madre si era impegnata sin dall’inizio, in un gruppo che si trovava alla Nikolaikirche di Lipsia per le preghiere della pace. In realtà erano riunioni politiche, e da lì le manifestazioni sono cresciute fino a portare in marcia tutti i lunedì anche centomila persone. Il giorno dopo il crollo del muro, a scuola fu scioccante vedere tanti banchi vuoti. Chi aveva l’auto, aveva portato dall’altra parte i figli la notte stessa. Noi ci siamo andati due settimane dopo con mia madre e mia sorella, per ritirare i cento marchi a testa che venivano regalati ai tedeschi che andavano a ovest. Con quei soldi ho comprato dei libri di Winnitou di Karl May.»
La passione per la lettura aveva già acceso in Meyer il desiderio di diventare scrittore, sebbene il massimo cui potesse aspirare nella Lipsia comunista fosse un probabile posto da bibliotecario. Fu proprio la caduta del muro a dargli la libertà di scelta.
L’esordio risale al 2006, con un romanzo (pubblicato in Italia dieci anni dopo con il titolo Eravamo dei grandissimi, Keller editore) diventato subito un classico contemporaneo, uno dei primi a raccontare la Wende, la svolta, dal punto di vista di un ragazzino. La sua è la generazione che ha vissuto l’incertezza sul futuro, propria dell’età, travolta dal divenire di un grande stravolgimento storico.
Quanto è importante il crollo del muro di Berlino per la sua scrittura? E quanto è cambiato il Paese in questi trent’anni?
«Oggi non è più un tema così centrale per me, lo fu nel romanzo di esordio. Compare però ogni tanto come fatto del passato, vissuto da qualche mio personaggio, come accade ne Il silenzio dei satelliti. In tre decenni sono cambiate molte cose in Germania, però resta un fenomeno storico ancora molto presente specialmente ad Est.»
Sembrava che il crollo del muro ci avrebbe condotti a una società aperta ed evoluta, oggi invece ci stiamo aggrovigliando attorno a numerosi conflitti. Siamo di fronte a un imminente nuovo muro, che sia culturale o fisico, nel cuore dell’Europa?
«È difficile rispondere, perché credo che l’essere umano in sé sia di natura conflittuale. I muri potranno spuntare ancora e ci sarà chi li vorrà abbattere, come altrettanto non si fermeranno le migrazioni e gli spostamenti di popoli. D’altro canto, anche la caduta del muro è stata frutto di un insieme di fattori, non è stata certo una telefonata a farlo crollare.»
Parliamo del titolo del suo ultimo libro: chi sono i satelliti?
«Il termine si riferisce a diversi elementi della narrazione. Innanzitutto, alle città satellite, ovvero i quartieri periferici fatti costruire sotto la DDR. I Plattenbauen erano stati progettati come prefabbricati di rapida costruzione per poter dare un’abitazione al popolo. Ma a loro volta questi edifici tutti uguali sono a loro volta satelliti rispetto al loro contesto, e i personaggi sono corpi nello spazio, che orbitano in rapporto reciproco. Pure la luna compare in molti racconti con un ruolo narrativo.»
La sua scrittura si cala spesso nell’attualità: come si pone di fronte ai fatti contemporanei?
«Nel racconto che dà titolo all’ultimo libro, il protagonista afferma “Cosa sarà mai attuale? Niente. Tra un istante siamo già da tutt’altra parte”. È una questione rilevante nella mia scrittura, perché tutto, una volta scritto, appartiene già al passato, invecchia rapidamente. Il tentativo è quindi di evitare innanzitutto che le storie diventino strumento di una qualche morale, e che ciò che osservo e racconto punti piuttosto all’universale. Si scrive di questo, in fondo, dell’amore, della morte.»
Lo scrittore non ha quindi alcun ruolo di natura politica?
«Günther Grass o Heinrich Böll hanno rivestito un forte impegno politico con il loro lavoro, ma essere uno scrittore non significa solo quello. Io, ad esempio, non mi riconosco come intellettuale politico, cerco di scrivere buone storie, di confrontarmi con il tema della lingua e di scrivere della società, però senza trarre conclusioni. Situo personaggi in situazioni ai margini, difficili, ma non per fare un qualche tipo di critica politica. Poi scrivere ha a che fare con il rallentamento e per questo è un atto un po’ anacronistico, visti i tempi in continua accelerazione che stiamo vivendo. Però in futuro, chi vorrà capire ciò che stiamo vivendo più che cercare nei libri di storia dovrà leggere i romanzi di oggi.»
Quanto l’ha influenzata la letteratura della Germania est?
«Tantissimo. Oltre ad aver letto intorno ai vent’anni Hemingway, Faulkner, i grandi autori della DDR sono stati molto importanti per me. Il più grande è stato Wolfgang Hilbig, (in uscita il 29 novembre Le femmine e Vecchio scorticatoio, sempre di Keller Editore, nda), ma anche Christa Wolf, Bertold Brecht, Günter Kunert, appena scomparso, ma anche i libri per l’infanzia hanno avuto una grande influenza. Dopo la riunificazione ho ripreso in mano quella letteratura, molti autori li conosco anche personalmente, tanto che molti mi considerano l’esperto della letteratura della Germania est, perché scrivo di questo legame con la generazione precedente di scrittori. Soprattutto la produzione poetica mi colpisce, perché in quei testi si riusciva ad aggirare la censura, come faceva Hilbig.»
Uno dei personaggi di cui scrive nell’ultimo lavoro, è una giovane ragazza tedesca che si converte all’islam. Quanto è attuale come fenomeno?
«A fare questo cambiamento sono soprattutto ragazze in condizioni sociali precarie, senza sostegno, in cerca di un orientamento, di un’identità che le sorregga. Si innamorano spesso di ragazzi di fede islamica, si convertono e cambiano alcune il nome. Non è così marginale come realtà.»
In Italia il tema dell’integrazione è gravato dalla mancanza di una concreta progettazione politica, invece la Germania è considerata un modello da seguire per le politiche attive di inserimento sociale destinate a chi non è tedesco. Ma hanno successo o no? Ed è un risultato omogeneo nel Paese, oppure ad Est la realtà è diversa rispetto Ovest?
«Anche in Germania si sono fatti molti errori negli anni Sessanta e Settanta, con il fenomeno dei Gastarbeiter. In particolare a Berlino si sono formate società parallele, dove non accede nemmeno la polizia. Ci si è accorti del problema e si tenta di rispondere, ma forse è troppo tardi. L’Ovest comunque ha avuto decenni per adeguarsi all’afflusso graduale dei migranti, a Est invece non c’erano quasi stranieri se non vietnamiti, cubani, africani provenienti da stati fratelli in regime socialista. Con la caduta del muro ovviamente l’arrivo di altre etnie è stato rapido e in realtà non è mai stato visto di buon occhio. Ci sono stati incendi in centri di accoglienza, aggressioni, persino delle cellule neonaziste sotto state messe sotto controllo della polizia. Ma devo dire che si fa tanto perché non si riproponga più la situazione degli anni precedenti. C’è però una fascia di migranti che non vuole l’integrazione a livello sociale, ma vuole solo partecipare al benessere generale. È d’altronde naturale che si voglia andare dove si sta meglio e non c’è modo di trattenere le persone. Anzi mi stupisco che non ne siano arrivati di più e non abbiano cominciato prima a venire. Si potranno costruire nuovi muri, ma prima o poi cadranno. Come quello di Berlino.»