L'ultimo Coppi raccontato da Marco Pastonesi
E' uscito il libro di Marco Pastonesi che parla degli ultimi giorni di Fausto Coppi, morto per una malaria non riconosciuta.
E' uscito il libro di Marco Pastonesi che parla degli ultimi giorni di Fausto Coppi, morto per una malaria non riconosciuta.
Sono le 17.00 del 1 gennaio 1959: nel letto della stanza numero 4 del reparto dozzinanti dell’ospedale di Tortona giace un uomo in condizioni che ora dopo ora si fanno sempre più disperate. Tre medici non capiscono il perché di quella febbre fuori controllo: tre luminari che non riconoscono i sintomi della malaria. Incredibile. L’uomo entra in coma e alle 8.45 del 2 gennaio esala l’ultimo respiro. «Fu un caso di malasanità. Oggi in quella stanza c’è un piccola targa in memoria di Fausto Coppi» racconta Marco Pastonesi. Genovese, già prestigiosa firma della Gazzetta dello Sport, scrittore e fine cantore di storie di pedale, Pastonesi ha raccontato nella sala gremita del negozio di Ospedaletto Cicli Turrina («Non c’è nulla di più bello che parlare di ciclismo in mezzo alle biciclette»), quell’ultimo anno della vita del Campionissimo fino al suo drammatico epilogo.
Un Coppi antieroe, straordinariamente umano, che pedala lento lungo le strade del tramonto: «Sono stati scritti più di 300 libri su Coppi. Gianni Brera, Dino Buzzati, Anna Maria Ortese, Indro Montanelli, Mario Fossati: tutti i più grandi giornalisti e scrittori italiani si sono occupati di lui. Per questo motivo, ho cercato un angolo buio nella sua carriera. Nessuno aveva infatti mai raccontato il suo periodo più difficile, il 1959, l’ultimo suo anno in bicicletta». Così è nato «Coppi Ultimo» (66th and 2nd), il libro che lo ritrae al crepuscolo, lontanissimo dai tronfi che ne hanno disegnato il mito.
Nel 1959 lo troviamo ormai quarantenne con la maglia della Tricofilina sotto la direzione del suo storico ex gregario Ettore Milano. Gli anni ruggenti sono però un ricordo; alla Roubaix arriva quarantaquattresimo, stravolto in una maschera di fango, staccatissimo insieme al gruppetto dei gregari: «Coppi, soffriva: “ma chi me l’ha fatto fare” imprecava pedalando a fatica sulle pietre. Al traguardo era però felice per sentirsi ancora un corridore». Quell’anno prende parte, prima e unica volta della sua carriera, alla Vuelta, ma si ritira insieme alla sua squadra: «Correva con una maglia bianca fasciata dal tricolore. Fu un martirio». Coppi molla e torna in Italia per correre il Giro di Toscana.
Nell’autunno di quel 1959 nasce la San Pellegrino Sport, la formazione diretta da Gino Bartali, capitanata proprio da Fausto Coppi, all’ultima stagione da professionista prima del ritiro definitivo, annunciato per la fine dell’anno seguente. I due grandi rivali sotto la stessa bandiera, come ai bei tempi vent’anni prima alla Legnano: «In bicicletta Coppi era un angelo. Lui era nato per vincere, Bartali per non perdere. Coppi non alzava mai le braccia, non festeggiava la vittoria. Bartali non sapeva perdere; c’era sempre qualcosa che non andava. Il loro era un dualismo perfetto». Con la morte di Coppi il progetto San Pellegrino, che ha in Meo Venturelli l’uomo di punta, non avrà mai luogo.
E poi c’è quel maledetto safari in Alto Volta: Coppi parte con cinque amici ciclisti francesi, Raphael Geminiani, Jacques Anquetil, Roger Rivière, Henry Anglade e Roger Hassenforder. Una vacanza tra battute di caccia e corse in bicicletta. Il 13 dicembre è in programma un criterium a Ouagadougou, dove Anquetil vince davanti a Coppi: «Pochi lo sanno, ma Coppi prese parte a una seconda corsa, con gli africani. Al ciclista di casa Mussà promisero una Citroen in caso di vittoria. Nella volata finale a due, Coppi lo lasciò vincere. Fu quello, l’ultimo regalo» rivela Pastonesi. Poi gli ultimi tragici giorni della sua vita: una malaria non riconosciuta e fatale.
Il libro poggia sulla ricerca dei gregari che accompagnarono il Campionissimo lungo il tramonto: «L’ultimo Coppi è sofferente, è un paradosso in coda alle corse e alla vita. Era stanco, sfinito, vecchio. Coppi c’è sempre qualcuno che lo ricorda e te lo racconta. Ho messo dentro tutto ciò che ho raccolto; testimonianze vere di chi correva con lui in quel 1959. Questo libro è una dichiarazione d’amore per Coppi e per il ciclismo. Fu il meglio di un’epoca storicamente irripetibile, di un ciclismo che smuoveva le anime. Il bello del ciclismo è stare in gruppo. E in questo libro si fa gruppo».