La crisi del Leviatano
Parlare oggi di indipendentismo e secessionismo è anche e soprattutto riflettere sulla crisi dello Stato Moderno.
Parlare oggi di indipendentismo e secessionismo è anche e soprattutto riflettere sulla crisi dello Stato Moderno.
Sono anni che in Europa i politologi si interrogano sul calo della partecipazione politica. Il fenomeno, ormai vecchio di diversi anni con un trend in continua crescita, si esprime con diverse sintomatologie, prima fra tutte la disaffezione per il voto. Se fosse un partito, quello dell’astensione, sarebbe la prima forza politica in molti Paesi dell’Occidente, se non in tutti. Il distacco tra politica e società si manifesta anche nel declino dei cosiddetti “corpi intermedi”, tutti quegli organismi, dal partito ai sindacati, che nelle moderne democrazie sono le insostituibili cinghie di trasmissione tra istituzioni e società civile e che da diversi anni sono svenati da una continua emorragia di iscritti.
In controtendenza a questo generale affievolirsi dell’interesse verso la politica, gli unici movimenti che in Europa negli ultimi dieci anni sono riusciti realmente a mobilitare grandi masse di persone, e che hanno avuto maggiore rilevanza mediatica, sono quelli – indipendentistici – catalano e scozzese.
Parlare oggi di indipendentismo e secessionismo è anche e soprattutto riflettere sulla crisi del Leviatano, lo Stato Moderno. Le sue radici sono oscure. Uno dei padri fondatori del moderno concetto di Stato, Jean Bodin, fu anche un implacabile cacciatore di streghe. La più micidiale macchina di morte che l’uomo abbia mai concepito. La sua epoca è quella delle “Guerre totali di annientamento”, dove la popolazione civile diviene, alla stregua di un esercito, di una colonna di blindati, di un’infrastruttura, un obiettivo bellico da distruggere. Lo Stato giustifica se stesso con un inganno, oppure una dissimulazione. Attraverso la narrazione di una “comunità immaginata” definita “Nazione”, postula l’esistenza di un mito fondativo, con il quale maschera la sua reale natura: quella di essere una geometrica manifestazione di “Potenza”. Al netto di ogni narrazione mitica, lo Stato altro non è altro che un apparato istituzionale che esercita il monopolio della violenza su di un determinato territorio – Weber docet –.
Questa forma politica alla fine del XX secolo va in crisi, per molteplici motivi. Collasso dei sistemi di welfare, devoluzione a organismi sopranazionali di parti della propria sovranità, concorrenza da parte di soggetti internazionali astatuali, come ad esempio i network del terrore o della criminalità organizzata, erosione della sua sovranità da parte di aziende multinazionali come Amazon, Microsoft e Apple, che prese singolarmente hanno un fatturato che permetterebbe loro di sedersi al tavolo dei G20.
Tale crisi ha due sintomi, uguali e contrari. Da un lato il ridestarsi della narrazione nazionalista, utilizzata come strumento di mobilitazione del consenso da parte dei movimenti che si definiscono “Sovranisti”. Dall’altro l’emergere di forze centrifughe, saldamente radicate a livello locale, che mettono in discussione l’appartenenza a una comunità che si definisce “Nazionale”. La scienza politica ha acclarato da tempo che tale comunità nazionale non esiste. Non esistono Nazioni che siano omogenee per cultura, etnia, lingua o che abbiano un comune retaggio storico condiviso. Soprattutto non esiste alcuna necessità nella Nazione, essa è un atto volontario, il “plebiscito di ogni giorno” di cui parlava Renan, ovvero la scelta di un gruppo di vivere assieme. Scelta che, essendo appunto volontaria, è sempre possibile revocare.
Il primo sintomo è di tutta evidenza l’estremo colpo di coda di un’epoca, quella degli Stati Nazionali, che non si rassegna all’inevitabile tramonto. È la scossa che nel momento del trapasso scuote il corpo moribondo. Il secondo sintomo è l’annuncio del futuro. Gettata definitivamente nella “pattumiera della storia” l’idea che esista una qualche forma di finalismo nel processo storico delle forme politiche, e in tal senso il celebre libro La fine della storia, in cui Fukuyama descriveva le liberaldemocrazie come lo stadio finale del processo evolutivo delle forme politiche, sarà annoverato nei secoli a venire tra le più clamorose cantonate della storia del pensiero. Pertanto occorre dotarsi degli strumenti concettuali per decifrare gli scenari che verranno.
Uno molto convincente, a parere di chi scrive, è quello descritto dall’analista assai originale Parag Khanna: nei suoi lavori prefigura un futuro in cui le comunità locali, emerse dallo sfaldamento degli apparati statali, saranno interconnesse globalmente da relazioni a rete attraverso le quali passeranno merci, dati, notizie, uomini. Sostanzialmente una visione “Glocal”, nella quale lo spaesamento derivante dalla “globalizzazione” e il contemporaneo declinare dello Stato Nazionale si traducono nel rafforzarsi delle identità locali, che si interconnettono alla Rete Globale. Una visione moderna eppur antica…
In questo solco si inserisce il tema che l’indipendentismo catalano ha riportato drammaticamente alla ribalta: quello del diritto alla secessione da parte di una minoranza – oggi gli Scozzesi e i Catalani, domani chissà – il quale a ben vedere è una differente declinazione di un tema fondamentale del pensiero politico moderno, che è stato centrale nel liberalismo storico: quello della “dittatura della maggioranza”. I fondatori del liberalismo classico erano ossessionati dalla minaccia che una maggioranza che avesse acquisito il potere conil suffragio universale potesse comportarsi “democraticamente” in modo dispotico e opprimere la minoranza. Per ovviare a questo rischio, il liberalismo utilizzò due differenti strategie: la limitazione del suffragio e la realizzazione di un’architettura istituzionale che prevedesse un sistema di “Pesi e contrappesi” posti a impedire che una “volontà generale” dissimulata dietro la maschera dell’unanimità del consenso potesse emanare disposizioni liberticide quando non dispotiche. Praticamente una sorta di moderno “Catechon” secolare. Tema assai attuale, se si pensa alle vicende politiche italiche.
Il problema della “dittatura della maggioranza” è una diversa declinazione del “diritto alla secessione”, senza però i “Pesi e Contrappesi”. Ovvero una maggioranza in ragione del fatto che detiene le leve dell’apparato Statale e quindi, in ultima analisi, il monopolio della violenza, può obbligare una minoranza al rispetto di un vincolo che essa democraticamente non riconosce più? Qual è la scala con la quale riconoscere una decisione come “democratica” nel caso di una istanza secessionista? Quella della minoranza che chiede il distacco oppure quella della maggioranza unionista? Nonostante il disinteresse “interessato” che i media mainstream dedicano agli indipendentismi europei, Catalogna e Scozia stanno buttando sul tavolo dei temi fondamentali per il destino futuro dell’Europa con i quali, piaccia o meno, occorrerà confrontarsi.