«Gheddafi come giocatore non vale niente». Non amava i giri di parole Franco Scoglio, allenatore annoverato nella generazione dei “profeti di provincia” di cui oggi ricorre il quattordicesimo anniversario della scomparsa. Il “Professore”, come comunemente conosciuto per la laurea conseguita all’Isef, resta nella memoria degli appassionati di calcio soprattutto per i suoi trascorsi con il Genoa e per essere stato uno dei precursori tra i tecnici italiani che hanno affrontato un’esperienza all’estero. Per “l’uomo di Lipari”, soprannome che ne identificava l’origine, la chiamata arrivò dall’Africa. Prima dalla Tunisia e poi dalla Libia, nei panni di Ct delle rispettive nazionali.
La morte di Scoglio, il 3 ottobre 2005, avvenne in circostanze fuori dal comune, così come fuori dal comune fu la sua carriera e, in definitiva, la sua personalità. Se ne andò all’improvviso, per un attacco cardiaco mentre era in diretta tv, ospite di una trasmissione sportiva genovese di cui era opinionista. La sua ultima conversazione, pochi minuti prima di perdere conoscenza, fu con Enrico Preziosi. Una litigata senza esclusioni di colpi e senza alcun timore reverenziale verso il presidente del Genoa. Il “Prof” non si risparmiava certo davanti ai “potenti”. Proprio come avvenne qualche anno prima con un altro pezzo grosso: il proprio datore di lavoro in Libia. Ovvero Gheddafi Junior, figlio del Colonnello.
A Tripoli il “Professore” venne ingaggiato con l’obiettivo di portare la nazionale ai Mondiali del 2004. Curiosamente, tre vittorie su tre partite non gli bastarono a evitare l’esonero. È implicito che i risultati non furono la ragione scatenante del suo allontanamento dalla panchina libica. In realtà si trattò di una vera e propria ritorsione da parte di Saadi, di cui oggi si sono perse le tracce in qualche carcere del paese che papà Mu’ammar ha gestito come proprio feudo dal 1969 al 2011. Nel 2002 Gheddafi junior era contemporaneamente presidente della Federazione e calciatore. Forte del titolo di capocannoniere del campionato locale, pretendeva di giocare in nazionale. Scoglio, che tutto era tranne che fesso e men che meno sensibile a ingerenze e ricatti, sapeva bene che i suoi gol erano arrivati grazie alla benevolenza delle intimorite, e non certo per ragioni tecniche, difese avversarie. Lo osservò bene in allenamento e prese la sua decisione. E non lo fece giocare mai, neppure un minuto. «L’ho convocato pro forma in panchina soltanto con il Congo, ma perché si giocava in casa. Ma dopo il primo tempo in pratica se n’è andato. Durante la mia gestione non ha fatto neanche un riscaldamento». E poi il lapidario: «Come giocatore non vale niente». Passo e chiudo.
Dopo l’abbattimento del regime di Gheddafi, poco è cambiato sul piano del rinnovamento culturale in Libia. La testimonianza arriva dalla regista anglo-libica Nazira Arebi. Il suo docufilm “Freedom Fields”, che sarà presentato nell’ambito della rassegna cinematografica MediOrizzonti [in proiezione lunedì 14 ottobre presso il Cinema Nuovo di San Michele Extra] che ha il suo vernissage domani a Verona. La pellicola fotografa lo sconforto di tre coraggiose donne calciatrici nei confronti di una rivoluzione che prometteva libertà e che invece ha portato la Shari’a e ha involuto una nazione oggi ancor più isolata e arretrata. Attraverso il calcio, potenziale veicolo di emancipazione e immagine di ciascun paese sul piano antropologico, la cineasta documenta la vita e l’impegno di Fadwa, Halima e Naama, il loro amore per lo sport più popolare al mondo ma soprattutto la determinazione a combattere con i pochi mezzi a disposizione una battaglia di civiltà. Il film, coinvolgente sul piano umano, sviluppato nell’arco di cinque anni dell’era della post-rivoluzione, segue il tracciato di una narrazione che antepone le splendide immagini di un quotidiano per molti versi disarmante al racconto delle protagoniste.
Il licenziamento di Scoglio nel 2002 venne giustificato “nell’ambito di una serie di misure riorganizzative” all’interno del calcio libico. Una motivazione che trasudava ipocrisia. La cancellazione della squadra nazionale femminile, nel decennio successivo, ben documentata dalla Arebi, avviene “per motivi di sicurezza e la tutela delle atlete”. Come avrebbe detto un celebre corregionale del Professore, tutto deve cambiare per non cambiare nulla. Anche in Libia.