Marco Monari: «La fotografia è condivisione e divertimento»
Una lunga chiacchierata sul mondo dietro e davanti all'obiettivo con Marco Monari, fotografo professionista e professore di "Verona Fotografia".
Una lunga chiacchierata sul mondo dietro e davanti all'obiettivo con Marco Monari, fotografo professionista e professore di "Verona Fotografia".
Dietro all’obiettivo si “vede” meglio.
Marco Monari, bresciano, fotografo e professore di “Verona Fotografia”, da circa cinque anni vive in riva all’Adige e fin da piccolo ha sviluppato la sua passione per la fotografia: «Mi è sempre piaciuto guardare, anche se ero un bambino accecato con notevoli problemi di vista. Forse per questo motivo sono diventato fotografo». Ho avuto l’opportunità di incontrarlo con Osvaldo Arpaia – autore di tutti gli scatti dell’articolo – per fare una chiacchierata sulla sua carriera e su come la fotografia viene vissuta dentro e fuori le mura di Verona.
Quando e come hai iniziato a lavorare come fotografo?
«Il mio interesse per la fotografia nasce da sempre, ho avuto la fortuna di avere una madre che mi incentivava a guardare continuamente. Scambiavo mie fotografie con le figurine, visto che mia mamma non me le comprava, e poi alle medie fotografavo i compagni nelle gite. Ricordo che all’esame di terza media entrai fotografando la commissione, uscii, sviluppai le foto e ne diedi una a tutti i professori.»
Poi a passione è diventata un lavoro…
«Dopo il liceo, di fronte all’impossibilità di iscrivermi a una scuola di fotografia, optai per facoltà di Psicologia a Padova pensando che mi avrebbe aiutato nel lavoro di fotografo. A 20 anni andai a Sarajevo da freelance e ci rimasi per un anno e mezzo. A Sarajevo persi un amico. Mi ricordo che durante la strage del mercato anziché fotografare un bambino in difficoltà, decisi di aiutarlo. Lì capii che il fotogiornalismo non era la mia strada, in situazioni simili hai una grande responsabilità: o fotografi o aiuti. Tornato da Sarajevo, continuai a fotografare focalizzandomi su ciò che succedeva attorno a me, iniziai a fare una fotografia modesta, da “street”. La passione poi si coniugò con la camera oscura: un laboratorio di stampa di fotografia in bianco e nero dove passavo notte e giorno, lavorando per clienti e vari negozi padovani. Poi arrivò la didattica.»
Quanto è stata importante la tua esperienza alla camera oscura per così tanti anni?
«Molto il mio percorso – durato 10 anni – con la camera oscura, mi ha dato la possibilità di vedere milioni di fotografie e di capire come lavorare. Oggi il digitale ha permesso di avere tantissime modalità di lavoro e da un certo punto di vista ha riportato in auge certe angolazioni che sono stucchevoli.»
Qual è la differenza tra digitale e analogico?
«In realtà il digitale è sempre esistito: le fotografie sui giornali o sui manifesti erano già una digitalizzazione, ovvero avevano subito un processo di scansione. Perciò, considerando l’analogico e il digitale non c’è una situazione in cui una è fotografia è meglio e l’altra no. Il valore della fotografia è dato da come uno la utilizza , non da quale mezzo si avvale. Se non si sa guardare, non si sa fotografare nemmeno se si ha in mano una macchina molto costosa.»
Perciò, cos’è cambiato con l’arrivo del digitale?
«Il digitale ha sdoganato milioni di fotografi, il cellulare invece miliardi, il che è un bene per la fotografia. Il dramma della fotografia digitale è invece il misurare lo scatto in base alla quantità di mi piace di Instagram. Per cui siamo pieni di immagini di paesaggi, gatti, cani, di persone che esibiscono il proprio corpo. Queste sono le cose che fanno male alla fotografia. Vedo molto spesso questa situazione nella didattica: la gente inizia i corsi per fare una bella fotografia “instagrammabile”. Poi con lo studio arrivano a capire tante cose. Ad esempio: la gente si ammala di photoshop inutilmente, ma con il cellulare è talmente facile fare una bella foto che fare la stessa foto con photoshop occuperebbe ore di lavoro. Quindi le persone si chiedono “Cosa voglio imparare, photoshop o instagram?” Secondo me una terza via c’è, ovvero imparare a fare la foto come vuoi tu. Se uno ha ben chiaro cosa vuole, allora inizia a fare un certo tipo di fotografia.»
Verso quale direzione sta andando il digitale?
«Mi affascina il digitale perché ti fa vedere delle cose che prima non potevamo vedere. Se prima con l’analogico potevamo andare massimo a 400 ISO, oggi con una fotocamera A9 della Sony, oggi puoi scattare a 52.000 ISO. La luce che c’è a 52.000 ISO è irreale per i nostri occhi, esalta ed esalta. Al tempo stesso però, tra qualche anno, o tra un anno, nella mia scuola non saprò più come spiegare cosa siano gli ISO, perché alla gente non interesserà più. La pubblicità dello smartphone non è più “la fotocamera ha 10 milioni di pixel, 50,100″ ma “fotografa in qualsiasi condizione di luce”. Adesso facciamo i matrimoni senza flash, le conferenza senza flash. Ma non si tratta di un errore se ti fai andare bene le condizioni di luce presenti e cerchi di raccontare una storia, in questo modo si tratta di un gioco. Non c’è dunque la questione digitale-analogico ma c’è la questione dell’espressione. Il digitale è in continua evoluzione.»
Com’è cambiato il tuo modo di fotografare?
«Il mio percorso di fotografia ha due strade parallele: una fotografia che mi permetta l’autonomia economica legata a matrimoni e servizi e una fotografia che racconta delle cose che poi sono diventate un mio marchio di fabbrica.»
Come inizia l’idea della didattica?
«Ho messo la didattica in parallelo a esperienze importanti che ho vissuto: ho insegnato ai bambini affetti dalla Sindrome di Down, a persone con disabilità uditiva, ai detenuti in carcere. Mi è sempre piaciuto legare la mia idea di editore alla condivisione con le persone. Quando faccio una mostra con un gruppo mi piace che se usano una mia idea se ne approprino. Anni fa al Festivalbar a Padova “Il Gazzettino” fece un inserto di 12 pagine con gli scatti di 12 bambini affetti dalla Sindrome di Down che avevo portato sotto il palco. Per me quelle sono mie fotografie, perché c’è l’orgoglio di aver insegnato a questi bambini.»
Ritieni la fotografia un mezzo di trasmissione culturale?
«Assolutamente sì. C’è una grande attenzione all’immagine, oggi per tutti la fotografia è diventata divulgazione di massa. Ma credo che sia anche un mezzo di documentazione più che in altri tempi. Non ci rendiamo ancora conto che tutto ciò che fotografiamo con il cellulare e postiamo sia utilizzabile. Ciò che lasciamo noi di documento avrà un valore storico importante. Proviamo solo a pensare che abbiamo visto la Primavera Araba grazie ai nostri telefonini. Dove ci sono realtà così difficili, i fotografi ci sono sempre meno, ma nella quotidianità ci sono sempre i cellulari.»
Come cambia la fotografia e la documentazione con la presenza degli smartphone?
«Anni fa feci un lavoro sul bullismosu Instagram. Diedi il compito a una prima di una scuola secondaria di secondo grado di postare una foto al giorno della loro quotidianità su un profilo chiamato “Maledetti social”. Abbiamo fatto una mostra con quasi 5.000 fotografie e se andassi a prendere il quotidiano di quei ragazzi 14enni vivrei un dramma sociale. Ho visto piante di marjiuana, pacchi di soldi, alcol a dismisura, droga, ragazzine e ragazzini in atteggiamenti non consoni alla loro età. Quando a metà anno ho detto loro “Abbiamo salvato le fotografie e diventerà una mostra alla quale inviteremo i vostri genitori” loro sono sbiancati.»
Pensi che per leggere la fotografia sia necessario avere già alle spalle un bagaglio culturale o un’educazione visiva o che sia essa un trasmettitore senza criteri?
«Oggi è fondamentale avere già un’educazione visiva. Consideriamo che l’Organizzazione Mondiale della Sanità da 10 anni reputa il nostro assorbimento passivo di immagini come un’ipotetica patologia. Questo che cosa significa? Che quando sei davanti a un giornale su Internet e fai uno scrollo di 10 pagine, hai già visto almeno 100 immagini. Come risultato dell’ingombrare numerico delle foto, non abbiamo più una capacità critica verso le immagini e se, di fronte a tutto questo, un bambino che non ha un’educazione visiva con un telefono in mano tutto si complica enormemente. Come potremmo pretendere che un bambino si interroghi sulla verità di una foto?»
Quali sono le grandi difficoltà a cui la fotografia sta andando incontro?
«Le grandi difficoltà oggi sono legate al pensare di raccontare qualcosa che non è stato ancora raccontato. Non è l’indagare o lo studio. C’è un’enorme possibilità e modi di interagire con le cose creando delle progettualità.»
La tua fotografia, invece, verso quale direzione sta andando?
«Mi è difficile darti una risposta: la fotografia per me rimane curiosità, indagare, guardare quello che fanno gli altri e poi raccontare mettendoci delle cose in più. Mi interessa senz’altro l’uomo: Il mio ultimo lavoro si è incentrato sulla violenza contro le donne. Ho realizzato il lavoro allestendo una camera di 2X2,5 m all’interno di una galleria, in un ambiente quasi claustrofobico, ma rendendo al tempo stesso la donna sempre presente insieme ad armi, droghe, psicofarmaci, falli di gomma. Il tutto ti porta ad avere una certa lettura.»
Concentrandoci sulla fotografia nel veronese, sei stato e continui a essere un personaggio che ha contribuito in una maniera molto significativa all’educazione e anche alla tutela della divulgazione fotografica. Ti sei molto battuto, per esempio, per la riapertura del Centro Internazionale “Scavi Scaligeri” chiuso nel 2015. Cos’è cambiato da allora?
«Il fatto che l’anno scorso avessi tre gallerie e quest’anno ne avrò solo una è la dimostrazione che vince la politica. Nel senso che gli Scavi Scaligeri erano un’operazione geniale, fatta da chi non sapeva cosa aveva creato. Degli Scavi Scaligeri parlavano tutti tranne i veronesi. Gli Scavi avevano un’ipotesi di business plan perfettamente sostenibile, ma vince la politica, perché se non c’è volontà di far vedere la cultura fotografica, poco si può realizzare.»
Come ti eri attivato per la riapertura degli Scavi Scaligeri?
«Sono andato a parlare con diversi assessori, che molto hanno promesso, ma poco o nulla hanno fatto. Ho portato diverse proposte per tenere aperti gli Scavi: ho anche offerto le mie gallerie al Comune chiedendo i lavori di archivio e tenendo aperto il nome degli Scavi. Sono stato accusato di aver voluto appropriarmi del nome degli Scavi, quando in realtà volevo solo sottolineare come tutti questi lavori di valore fossero chiusi in uno scatolone. Viene ancora promessa la riapertura degli Scavi, ma è importante sapere come riaprirli, con un piano editoriale a lungo termine sulle mostre da proporre. Poco importa se siano commerciali, anche se è drammatico.»
Quanto è importante il sostegno delle amministrazioni?
«Pensiamo solo che Il Festival della Fotografia Internazionale della Provenza, ad Arles, è stato inaugurato dal Primo Ministro. Per Arles, che è un paese grande come Villafranca, sono stati stanziati 5 milioni di euro, con tanto di fondazione.»
Cosa vuol dire per te fare cultura fotografica a Verona?
«In cinque anni la scuola di fotografia è raddoppiata. Questo vuol dire fare degli eventi che interessano alla città e che parlano di fotografia. Quest’anno non faremo più giornate di presentazione dei marchi ma workshop completamente gratuiti per la città. Non puoi fare cultura fotografica con l’Amministrazione? Allora cerchi di continuare a parlare di fotografia. Mi interessa poco degli iscritti, mi interessa invece che grazie a tutti gli insegnanti di Verona Fotografia offriamo delle cose diverse. Per noi è un orgoglio fare delle cose nuove ogni anno e costruire un qualcosa dove le persone parlino di fotografia.»
C’è un’eredità positiva che ha lasciato la chiusura degli Scavi Scaligeri?
«La vicenda degli Scavi Scaligeri ha scaturito una “rabbia” che è diventata un modo per far sì che Verona possa avere una cultura visiva. Nonostante questo, una chiusura ha sempre un’accezione negativa. La cultura paga, non solo la cultura fotografica. E Verona vive di cultura. Essendo questa una città molto turistica si potrebbe fare di tutto: è fantastico immaginare che potrebbe esserci qualcosa in più da vedere.»
Che prospettiva hai di Verona come città culturale nei prossimi anni?
«Verona è una città relativamente piccola con una grande disponibilità economica. Perciò restituire, con lo sforzo di un centinaio di imprenditori e l’organizzazione di spazi che ancora non sono congestionati come le piazze, attività culturali alla città diventa un modo interessante di far ripartire Verona come città culturale. Per non parlare dell’importanza della sua collocazione geografica: è vicina al Brennero e a Venezia. Il suo stesso centro storico richiama questa centralità con l’ansa del fiume.»
Cosa renderebbe la fotografia particolarmente accattivante, per far sì che le persone ne siano interessate e gli imprenditori o le amministrazioni invogliati a investire?
«È facile: la fotografia viene vissuta da tutti, tutti i giorni. Non so quante migliaia di bastoni per selfie vengano venduti a Verona ogni anno. Non serve sempre esporre le più crude mostre di fotogiornalismo. Sarebbe semplice realizzare un’azione fotografica che renda visibile la città di Verona in tutto il mondo: potremmo creare un evento in cui dentro all’Arena 20.000 persone si scattano un foto. Sarebbe il selfie che ritrae il più grande numero di persone della storia e tutti i giornali ne parlerebbero. La fotografia è condivisione e fa anche questo: diverte.»