La cruda realtà in una “Dolcissima Abitudine”
Il nuovo romanzo di Alberto Schiavone racconta la storia della prostituta Rosa. Un testo che che lascia un sapore amaro e un retrogusto dolce, anzi dolcissimo.
Il nuovo romanzo di Alberto Schiavone racconta la storia della prostituta Rosa. Un testo che che lascia un sapore amaro e un retrogusto dolce, anzi dolcissimo.
«Eppure andava bene, il destino a volte è un raccolto che si accetta.»
Dolcissima Abitudine, pubblicato da Guanda Editore, è l’ultimo libro di Alberto Schiavone.
L’autore, nato a Torino nel 1980, dopo aver svolto per dieci anni la professione di libraio, approda alla scrittura riscuotendo notevole successo sia di pubblico che di critica.
Nel 2009 esce il suo romanzo d’esordio La mischia (Cult editore) , nel 2012 La libreria dell’armadillo (Rizzoli Editore), nel 2014 Nessuna carezza (Baldini & Castoldi) e nel 2017 Ogni spazio felice (Guanda Editore), quest’ultimo vincitore del premio Fiesole Narrativa under 40 e finalista al premio Stresa.
A gennaio 2019 è arrivato in libreria il suo ultimo romanzo Dolcissima Abitudine che racconta, prendendo spunto da una storia vera, la vita di una prostituta – Piera Cavallari in arte Rosa, nata a Torino nel 1942 – dall’inizio della sua “carriera”, nel 1958, fino ai giorni nostri.
Il romanzo inizia con Rosa ormai sessantacinquenne che sta andando al funerale di uno dei suoi clienti più affezionati; con questa immagine Schiavone apre il racconto descrivendo perfettamente la chiusura di un cerchio per la protagonista, un momento di bilanci della sua esistenza, un momento che affaccia la medesima sul suo passato.
Parte così un viaggio nel vissuto di Rosa: la troviamo a 13 anni, legata a una madre che non le ha insegnato nulla se non a guadagnare denaro per vivere usando il suo corpo e la sua avvenenza femminile.
Il ritratto della madre di Rosa, delineato mirabilmente da Schiavone, è la personificazione di una donna cinica e arida, anche lei prostituta, che ha influito in modo determinante nella sua scelta di vita.
«Sua mamma l’ha messa a praticare il mestiere che aveva, a tredici anni era già formata. Piccola, bionda, un seno capriccioso e un corpo adatto a dare piacere. Il prodotto delle cure amorevoli della madre. Per maritarla? No. Amore facendosi pagare.»
Con una penna schietta e diretta Schiavone ci catapulta nella vita di Rosa raccontando tutte le vicende che hanno caratterizzato il suo percorso; ci accompagna il lettore dentro alla sua ingenuità di bambina, quando rimane incinta a 16 anni e accetta con rassegnata normalità il fatto che la madre venda il suo piccolo, fino ad arrivare alla Rosa donna ormai pienamente cosciente della sua attività “atipica”, ma sicura e fiera.
«A sedici anni Rosa conosce gli uomini e ne ha incontrati più di cento. L’ hanno usata, vezzeggiata per mezzora. Pagata, saluti. Non ha frequentato principi innamorati, cavalieri coraggiosi.»
La capacità dell’autore è proprio la trasparente e forse a tratti cruda verità che riesce a far percepire al lettore; la protagonista ormai adulta non nasconde dietro alla vergogna il suo lavoro ma te lo sbatte in faccia: questo lavoro rappresenta la sua vita, le ha permesso di possedere una quantità di danaro tale da diventare ricca e libera, di riscattare la sua esistenza da una madre dominante e dalla povertà.
Nel contempo e in antitesi, tuttavia, Schiavone riesce a trasmettere tra le righe del racconto anche l’immensa sofferenza di Rosa dietro a una maschera di orgoglio, dietro a un attaccamento al suo lavoro la protagonista cela una forte solitudine e la paura di guardare oltre il suo mestiere.
«La libertà è una bellissima parola e spesso ci si riempie la bocca. Io stessa l’ho ripetuta più volte urlando perchè me la sono costruita io da sola, la mia libertà. E quando mi rendevo conto che non era vero, che quella libertà era un’invenzione, ho accettato l’invenzione e la falsità.»
L’autore nel prosieguo, con la decisione di Rosa di ritrovare il proprio figlio, descrive il desiderio della medesima di volere fortemente qualcosa che va oltre il suo lavoro: la costanza di stare accanto a suo figlio per anni e anni senza mai farsi scoprire. Rosa cammina sotto il suo palazzo quotidianamente, dicendogli semplicemente buongiorno, tutti i giorni.
Questo desiderio, che Schiavone ci descrive come un po’ flebile all’inizio, diventerà con l’andare del tempo e con l’approdo di Rosa alla vecchiaia più forte e intenso.
«È che non sono abituata, devo imparare a fare la madre. Sto imparando una lingua nuova. Non è troppo tardi vero?»
Alberto Schiavone, rimanendo fedele a una storia realmente accaduta, consegna al lettore un racconto difficile da accogliere e affrontare soprattutto per la sensazione di normalità che trasmette, una normalità che si percepisce anomala stante il fatto che il mestiere di prostituta non è nella visione comune un mestiere normale.
Il primo impatto con Dolcissima Abitudine è di disagio, Schiavone non fa giri di parole, è molto schietto, racconta al lettore i dettagli del mestiere e della vita della protagonista senza alcun ricamo emozionale, va dritto al sodo, nudo e crudo.
Probabilmente la sua penna maschile, nel trattare la storia di una donna così singolare, ha dato un tono al racconto profondamente vero e asciutto senza divagazioni in orpelli sentimentali – più congeniali a una scrittura femminile –, divagazioni che avrebbero certamente snaturato il reale impatto del racconto.
Un testo che va letto e riletto per essere apprezzato fino in fondo e che lascia un sapore amaro e un retrogusto dolce, anzi dolcissimo proprio come ricorda il titolo.