Capitano di lungo sorso
Matteo Salvini e la crescita della Lega: analisi di un fenomeno troppo spesso sopravvalutato.
Matteo Salvini e la crescita della Lega: analisi di un fenomeno troppo spesso sopravvalutato.
Matteo Salvini ha preso in mano un partito allo sbando, con percentuali di consenso da prefisso telefonico, devastato dagli scandali della gestione familiar – nepotistica di Bossi, schiacciato dal peso del fallimento della decennale battaglia per l’autonomia del Nord, e ne ha fatto il movimento egemone della destra italiana.
Salvini aveva compreso perfettamente che, stante la cronica incapacità a conseguire una qualche forma di autonomia delle regioni del settentrione, l’unica chance di sopravvivenza della Lega Nord era trasformarsi da partito federalista su base locale a movimento di destra radicale su base nazionale, andando a occupare lo spazio lasciato libero dalla frammentazione della destra post missina.
Aiutato dal collasso di Forza Italia che gli ha permesso di avere praterie in cui mietere consensi, nei sondaggi Salvini ha portato la Lega a percentuali da Dc degli anni Sessanta. Abilissimo a fiutare tutti i movimenti della “pancia” dell’elettorato, utilizza i social come Bossi utilizzava le feste di partito e i comizi: come strumenti di ascolto. Molto del leggendario intuito politico di Bossi si basava sul passare la vita in mezzo al suo popolo, girando da un raduno all’altro e ascoltando centinaia di persone durante le mitiche cene in pizzeria che si tenevano dopo gli eventi, in modo da capire gli umori e tradurli in parole d’ordine. Allo stesso modo Salvini usa i social, non tanto come strumenti per mobilitare il consenso, quanto come barometri per capire in quale direzione soffiano gli umori dell’elettorato.
Chi scrive è assolutamente convinto che solo una frazione irrisoria del consenso pro Salvini venga costruito dai social. Quella della “Bestia” è una narrazione che deve la sua fortuna molto più ai mass media mainstream, che ne parlano con una sorta di malcelato timore misto a una sotterranea ammirazione, piuttosto che alla sua reale efficienza nella mobilitazione del consenso, il quale per la maggior parte è costruito sui tradizionali canali mediatici, tv e giornali prima di tutto. Nessuno ha riflettuto a sufficienza sul fatto che la Lega ha raddoppiato i consensi nel momento in cui il suo leader ha goduto della sovraesposizione mediatica (e delle ampie risorse) derivante dall’essere Ministro dell’Interno.
Le linee di continuità con la Lega di Bossi non si fermano qui. Le grottesche spiegazioni che Salvini ha addotto sul fatto di aver innescato la crisi di governo perché aveva avuto sentore di un accordo PD – M5S rimandano ai tempi in cui Bossi espelleva chi poteva fargli ombra, accusandolo di essere un agente provocatore pagato dai servizi segreti. In più, oltre al leaderismo e al culto del capo, la Lega salviniana si pone in diretta continuità con quella bossiana anche nel rapporto con il Veneto, da sempre cassaforte del voto leghista. Da quando esiste la Lega Nord, il Veneto ha sempre pigliato i voti, mentre i posti di potere nell’organigramma del movimento sono spettati alla Lombardia, pur avendo percentuali di consenso più basse. Se è vero che uno degli attuali vicesegretari della Lega è veronese, è altrettanto vero che in un movimento verticistico basato sul culto del capo, i vice contano come il due di bastoni quando la briscola è denari.
Le affinità con la Lega di Bossi sono maggiori anche di quanto una narrazione portata avanti soprattutto dai reduci del leghismo indipendentista voglia far credere. Per la Lega di Bossi l’indipendentismo delle regioni del Nord, più che un chiaro programma di azione politica sul modello ad esempio dell’indipendentismo catalano, era il bastone da brandire contro gli avversari e la carota con cui blandire il proprio elettorato. La Lega di Bossi fu di volta in volta autonomista, federalista, secessionista, regionalista e poi ancora secessionista, a seconda delle necessità dell’occasione. In tal senso, la svolta nazionalista di Salvini è solo l’ultima di una serie di cambi di programma occasionali a cui la Lega ha abituato gli osservatori più accorti delle vicende politiche.
Se questa veloce disamina può essere utile a ridimensionare la narrazione che vuole Salvini in discontinuità rispetto alla Lega di Bossi, a parere di chi scrive occorre rivedere anche il giudizio mainstream di Salvini leader infallibile che non sbaglia un colpo.
Salvini è un grande saltimbanco della politica, ma un mediocre politico. La sua esperienza di governo, al netto della propaganda, è stata un susseguirsi di tentativi falliti di prove di forza dai quali ne è uscito sempre un po’ più indebolito. Limitando l’analisi al solo periodo nel quale è durato il Governo Lega–M5S, i plateali fallimenti d Salvini sono parecchi e pesanti. Potremmo partire dalla tentata prova di forza contro i vertici europei per imporre una manovra economica con un deficit pari al 2,4% del Pil, rientrata con il patetico escamotage cosmetico dell’ormai celebre 2,04%. Potremmo proseguire con l’insistenza con la quale si è giurato e spergiurato che non vi sarebbero state manovre correttive, mentre a luglio sappiamo essere stata licenziata una finanziaria che ha messo una toppa sul bilancio dello Stato. Ma questi sono scacchi la cui responsabilità va divisa con il partner pentastellato di Governo.
Imputabile al solo “Capitano” è, invece, il fallimento – da manuale del dilettante allo sbaraglio della politica – delle velleità di costituzione di una sorta di “internazionale sovranista”, vero e proprio ossimoro. Operazione naufragata per l’ingenuità con la quale Salvini si è fatto irretire dai suoi sedicenti alleati sovranisti: l’ungherese Viktor Orbàn e il polacco Jarosław Kaczyński, i quali gli hanno ammiccato solo per alzare la posta della loro adesione al gruppo del Partito Popolare, per poi scaricarlo con il pretesto della sua vicinanza alla Russia di Putin, minaccia geopolitica al gruppo di Visegrad di cui Polonia e Ungheria fanno parte. Inciso di colore: tra i motivi della rottura dell’accordo di Governo, Salvini ha imputato a M5S l’aver votato per Ursula Von der Leyen, esattamente come i partiti sovranisti polacco e ungherese che invece sono da lui considerati come degli alleati (cosa evidentemente non reciproca).
Arriviamo a oggi con il clamoroso azzardo della crisi di Governo prima provocata con l’unico fine di monetizzare gli alti consensi virtuali, e poi grottescamente esorcizzata nel momento in cui Salvini ha percepito che lo schema delle elezioni anticipate a cui puntava era messo in discussione dal cementarsi di un asse anti elezioni tra PD – M5S. Solo il confronto con un partner/avversario di governo modesto come M5S ha potuto far emergere come un gigante la figura invero politicamente modesta del “Capitano”, per il principio per il quale in un campo ove l’erba è stata falciata a raso, il filo che sporge più degli altri pare una sequoia.