Ci sono degli autori che, pur rimanendo fedeli alla propria “poetica”, si aggiornano, studiano, si evolvono per essere sempre al passo con i tempi; ce ne sono altri, invece, che preferiscono pensare che dal loro primo film nulla sia cambiato, che il linguaggio cinematografico sia rimasto sempre lo stesso, appellandosi in modo testardo ad una propria, pigra coerenza. Per fare un esempio, di Martin Scorsese non ce ne sono tantissimi e, per problemi prettamente anagrafici, neppure di Pupi Avati, però il loro approccio alla Settima Arte è decisamente differente; «E per fortuna!», qualcuno potrebbe aggiungere.

Concentriamoci sul regista del film in oggetto; Avati ha creato un suo modo di fare Cinema, sempre molto riconoscibile per la delicatezza e l’apparente semplicità della messa in scena. Il suo non è certo un Cinema urlato, non è mai proteso allo stupire lo spettatore ad ogni costo, piuttosto lo accompagna per mano in un’ideale e tranquilla passeggiata nella vita dei suoi personaggi e nelle loro storie. Con il medesimo approccio ha esplorato anche il genere horror, ma senza scimmiottare autori che, negli anni, hanno segnato mode dettando le regole per spaventare il pubblico in cerca di facili brividi; il classico La casa dalle finestre che ridono (1976), Zeder (1983), L’arcano incantatore (1996) e Il nascondiglio (2007) sono tasselli di una carriera che conta 52 regie tra film e serie televisive quando queste ancora si chiamavano sceneggiati.

Il Signor Diavolo è Pupi Avati al 100%, ma non è detto che sia per forza una cosa buona. Pur venerando il simpatico regista bolognese (come si fa a non volergli bene? È uno dei pochi, veri Signori del Cinema e questo da sempre, ma basterebbe anche seguire una sua intervista per apprezzarne l’umiltà e la simpatia…), la domanda che mi sono posto all’uscita dalla sala è stata questa: “Se non avessi saputo che era un horror di Avati, come lo avrei giudicato?”. Quindi si può valutare un film a prescindere dal suo autore, oppure bisogna conoscerne tutta la filmografia per poter esprimere un parere?

Di Avati ho visto quasi tutto, ma credo che un’opera debba essere giudicata anche indipendentemente da ciò che il regista ha realizzato in passato, altrimenti la sua fruizione diventerebbe quasi esclusivamente elitaria e pure un po’ snob, mentre un film teoricamente dovrebbe essere destinato a un pubblico eterogeneo e non per forza composto da studiosi o nerd del Cinema. Mi rendo conto che il discorso sarebbe troppo complesso per poterlo liquidare in poche righe, ma ricordiamoci che qui si sta parlando “solo” di un horror che ha un target di un certo tipo, il che non significa che debba essere composto solo da sempliciotti adolescenti americani, anzi: chi ama veramente il genere sa distinguere benissimo un prodottino clonato in serie da una vera perla da mandare a memoria, tant’è che potrebbe elencarvi senza tante difficoltà i primi cinque titoli degni di nota usciti negli ultimi vent’anni.

Pro e contro de Il Signor Diavolo.

Pro:

Avati sa dirigere benissimo gli attori, li ama e si vede: Massimo Bonetti, che potrebbe benissimo doppiare Mastandrea tale è simile il timbro di voce, è impeccabile, così come un inaspettato Andrea Roncato misurato più che mai, o il sagrestano di Gianni Cavina, o un’inconsueta Chiara Caselli, per non dimenticare i giovani Lorenzo Salvatori e Filippo Franchini.

L’ambientazione, di tempo e di luogo, ha un suo fascino e non è solo un escamotage per un sicuro “effetto nostalgia”.

Il soggetto non vuole scimmiottare le solite trite storie già viste mille volte sul grande schermo, ma va alla ricerca delle credenze popolari tanto care all’autore, dando un senso di continuità al suo indimenticato La casa dalle finestre che ridono.

Contro:

Inutile nascondersi dietro a un dito, ma sembra di assistere a un buon sceneggiato Rai degli anni ’70, con l’aggravante che la fotografia desaturata evidenzia ancor più i limiti – che ormai si pensavano superati – del formato digitale. Sempre restando in tema “digitale”, è assurdo che nel 2019 si debba assistere a effetti speciali posticci come quello del sangue nella culla così mal realizzati, quando persino un dodicenne con il suo computer saprebbe far di meglio.

Registicamente sembra che il tempo si sia fermato a cinquant’anni fa e ogni taglio, ogni cambio di inquadratura è tanto prevedibile quanto piatto; mai avrei voluto vedere un Avati rifare un Raimi, ma un po’ più di grinta – visto il genere trattato – non sarebbe guastata.

Pur adorando i suoi attori, non sempre in questa pellicola Avati li ha ben serviti: al di là di alcuni improbabili e fastidiosi accenti (non si impara il veneziano con qualche ora di studio) ed il fatto che tutti, dal primo all’ultimo, abbiano delle occhiaie che «Crescentini levate!», la sceneggiatura ad opera dello stesso Pupi con il figlio Tommaso e il fratello Antonio fa spesso venire la pelle d’oca e non certo per la paura: vogliamo parlare della seduzione telefonica tra il protagonista Gabriel Lo Giudice e l’infermiera, con dialoghi buttati giù con la delicatezza di una mannaia che si abbatte sulle orecchie di noi spettatori? O della presa di coscienza repentina e senza alcuna titubanza sempre del medesimo protagonista? E inserire così tanti attori e, quindi, ruoli in soli 86 minuti non rende forse dispersiva e sfilacciata la semplice trama, a meno che lo scopo non fosse quello di una bella rimpatriata per festeggiare tutti insieme a cena i bei tempi che furono?

Ci sarebbe qualcosa da ridire anche sul finale che vorrebbe sorprendere, ma temo che questo effetto lo avrà fatto solo sulla vecchina – appassionata del regista – che era entrata in sala ignara di trovarsi di fronte a un horror, malgrado l’esplicito titolo. Il film termina proprio quando si pensa che possa ancora spiazzare con un colpo d’ala e lascia un amaro in bocca che sa troppo di déjà vu e di occasione mancata.

Mi dispiace, ma Il Signor Diavolo non mi ha convinto del tutto e, anche se Avati sta sicuramente molto meglio di Argento, non è un buon motivo per strappare una piena sufficienza.

Voto: 2,5/5

Il Signor Diavolo
Regia di Pupi Avati con Gabriele Lo Giudice, Filippo Franchini, Cesare S. Cremonini, Massimo Bonetti, Lino Capolicchio, Chiara Caselli, Gianni Cavina, Alessandro Haber e Andrea Roncato.