Un Salvini che non ce l'ha ancora fatta
Una vetrina in Corso Milano (Verona) fa scattare le rimostranze del Consigliere Comunale Federico Benini.
Una vetrina in Corso Milano (Verona) fa scattare le rimostranze del Consigliere Comunale Federico Benini.
Il web, si sa, può riservare molte sorprese. In questa immateriale realtà parallela, non meno reale di quella fisica, può capitare di finire casualmente sul profilo Faceboock di Federico Benini, il consigliere comunale di Verona e factotum del PD con la passione per l’arredo urbano, e credere che sia stato hackerato da Zelger, Bacciga o dallo zar del Donbass(on) Vito Comencini. Tutta gente che gira con il rosario in tasca e lo maneggia con la “destrezza” con la quale Clint Eastwood maneggia una colt. E invece… E invece ad una più attenta analisi non si può che arrendersi all’evidenza: Benini ha scritto davvero un post “indignado”, raccogliendo il “grido di dolore” di alcune mamme che hanno temuto che i loro pargoli si scandalizzassero per la visione della vetrina di un sexy shop di Corso Milano nella quale faceva bella mostra di sé (udite udite) un manichino dalle fattezze femminili agghindato con abbigliamento “fetish” e con un frustino che le penzola pigramente dalla mano. Memore forse del passo neotestamentario ove si dice che «chi scandalizza anche uno solo di questi piccoli che credono in me, sarebbe meglio per lui che gli fosse appesa al collo una macina girata da asino, e fosse gettato negli abissi del mare», il consigliere subito scrive un post sul noto social in cui medita sull’inopportunità di esporre in vetrina dei capi di abbigliamento così provocanti su di una via ove passano molti pedoni (ma guarda un po’… e io che avevo sempre pensato che le vetrine dei negozi avessero proprio la funzione di presentare la merce che i medesimi vendono…), poi spamma di comunicati stampa al riguardo tutti i media veronesi. E così il giorno dopo non ci viene risparmiata la scenetta raccontata sul primo (e unico) quotidiano cittadino del piccino che indica con il ditino la signora in vetrina vestita strana e della mamma che (presumibilmente, ma il giornale non ce lo dice) gli copre gli occhi per sottrarlo allo scandalo. Scenetta così perfetta da sembrare finta e resa ancora più saporita dalla presenza nelle vicinanze di un temutissimo negozio di cannabis light. “Degrado e + degrado”, insomma, che fa della zona della città ove si trovano questi esercizi commerciali una sorta di Amsterdam, ma con la nuance di una città della provincia pedemontana veneta.
Tutto ciò potrebbe essere agevolmente derubricato sotto la voce “colore estivo”, se non fosse per alcune considerazioni che la vicenda fa sorgere spontanee. In primo luogo, il fatto che un esponente politico e per di più di sinistra abbia da sindacare moralisticheggiando sul “decoro” di un esercizio commerciale, personalmente a me preoccupa abbastanza. Ma non tanto per il fatto in sé, quanto perché è la cartina tornasole dello Zeitgeist. Il Salvinismo, nella sua corsa a sdoganare il “politicamente scorretto”, che ormai è diventato l’ideologia mainstream della nuova destra “Panza di fuori edition”, ha bruciato tutti i ponti dietro di sé al punto tale che oggi non è possibile definirsi “di destra” senza essere salviniani e questo anche senza far parte del movimento di Salvini. E fin qui (quasi) tutto bene, se non fosse che, come i tentacoli di una medusa, il salvinismo pare aver sfiorato perfino chi, come la sinistra, ad esso si dovrebbe opporre. E il caso qui esposto è paradigmantico: un esponente di sinistra che utilizza elementi della narrazione di destra per mobilitare il consenso. Un tempo si sarebbe detto “Moriremo democristiani?”. Ora forse è giunto il momento di chiedersi se non moriremo Salviniani.
Ma andiamo oltre. Sappiamo che temi moralisticheggianti come questi in una città come Verona sono un po’ come dei capi continuativi: vanno sempre. Ricordiamo la polemica di qualche anno fa esplosa per l’esposizione di cartelloni di una mostra su Tamara Lempika che rappresentavano alcuni dei suoi celebri nudi femminili e la richiesta di rimuoverli perché contrari al decoro. Ora, nel caso specifico della vetrina fetish, il problema non è tanto quello del “decoro” quanto quello del “ruolo”, nella fattispecie di quello della donna. La vetrina, infatti, non espone immagini di nudo, ormai comunque diffusissime per ogni dove, bensì l’immagine della “Domina” in intimo e frustino, cioè la dominatrice femmina da sempre oggetto di repulsione e (soprattutto) di attrazione nell’immaginario maschile. Per questo motivo è “perturbante”. Essa è l’accidente che con le sue pretese di dominio mette in crisi il sistema fallocentrico sul quale si regge il sistema di potere maschile. Oppure, detto in linguaggio più esplicito, è il simulacro del desiderio di (più di) qualche maschietto di essere preso a frustate (e non solo). È soprattutto la fastidiosissima immagine – magari mainstream e commerciale, nessuno lo nega – di una femmina che vuol essere ciò che vuole senza chiedere il permesso a un maschio. Vogliamo chiamarla donna emancipata? E perché no? Se intendiamo il termine nel senso che esso assume quando designa un’individualità che sceglie liberamente il proprio modo di essere, qualsiasi esso sia.
Questo episodio di colore potrebbe poi consentirci di ampliare il ragionamento sulle due ganasce della morsa che in questo primo scorcio del XXI secolo sta stringendo l’individuo: da destra le ideologie reazionarie tornate prepotentemente in voga e da sinistra la retorica neopuritana, la quale nasconde le sue velleità di controllo e repressione sociale dietro il concetto di rispetto della donna, stanno aggredendo le libertà individuali. Ma il tema esulerebbe da quello affrontato qui. L’età di Michelangelo conobbe il Braghettone (al secolo Daniele da Volterra) che copriva le pudenda dei nudi della Cappella Sistina, i suoi bis bis bis nipoti oggi vogliono togliere i nudi femminili dai musei. E coprire i manichini nella vetrine.