Sting, be yourself (no matter what they say)!
L'artista inglese, dopo la parentesi infelice con Shaggy, torna alle sue canzoni e regala una serata dalle emozioni indelebili a Padova
L'artista inglese, dopo la parentesi infelice con Shaggy, torna alle sue canzoni e regala una serata dalle emozioni indelebili a Padova
Si doveva far perdonare Sting. E alla resa dei conti lo ha fatto alla grande. D’altronde lo avevamo lasciato esattamente un anno fa, in Arena, imbronciato e poco in forma alle prese con la verve di Shaggy e un concerto in cui non credeva nemmeno lui. Lo avevamo lasciato con quel vero e proprio scempio del medley fra Roxanne e Mr. Boombastic che onestamente, a distanza di dodici mesi, non abbiamo ancora digerito, e lo abbiamo ritrovato, ieri sera a Padova, proprio con la stessa hit dei Police, che Matthew Gordon Sumner canta con la chitarra in una versione che già da sola mette i brividi (e vale il prezzo del biglietto). Sono le 21.40 e inizia proprio così un concerto che probabilmente rimarrà a lungo nella memoria degli oltre ottomila accorsi alla Live Arena di Padova, allestita di fronte al Teatro Geox. Un’area onestamente poco affascinante, con la trafficata tangenziale a vista e i ruderi di archeologia industriale li accanto, ma che è funzionale all’estate concertistica patavina e dove l’organizzazione funziona tutto sommato in maniera impeccabile.
È in forma Sting. Si temeva per la resa della sua voce, dopo che all’inizio del mese aveva dovuto annullare alcune date del suo tour per una infezione alle corde vocali, e invece si sente fin da subito che i problemi di salute sono ormai alle spalle e che sarà una serata all’insegna della buona musica, senza intoppi. Magliettina rossa, che stacca rispetto al resto della band vestita tutto di scuro, fisico come sempre asciutto, capello orgogliosamente brizzolato, l’ex Police utilizza fin da subito i pezzi della sua ex band, che formò insieme a Andy Summers e Stewart Copeland in un trio dalle sonorità punk, rock, reggae e, in ultimo, anche pop che vendette milioni di dischi fra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta. Dopo la fantastica Roxanne, restituita per fortuna alla sua dignità originaria in questa bella versione acustica, tocca infatti a Message in a Bottle, altra hit immortale, che ha lo scopo di scaldare subito gli animi del pubblico. Poi inizia un terzetto di canzoni che, a ritroso, partendo dall’inizio degli anni Novanta (con If I ever lose my faith in you, 1993) e passando per l’immortale Englishman in New York (1987) torna indietro nel tempo fino alla prima canzone apparsa nel suo primo album da solista, If you love somedbody set them free (1985), che in qualche modo bilancia l’incipit dedicato ai Police.
Esperienza, quella, che sarà comunque grande protagonista della serata, visto che Sting ritorna su un’altra hit di quel periodo, immancabile ai suoi concerti: Every little thing she does is magic. Poi si concede alcuni minuti per presentare la band, fra cui spicca, ovviamente, il fido Dominic Miller, braccio destro di Sting da inizio anni Novanta. Nel gruppo sono presente anche i figli dei due: Rufus Miller, alla chitarra acustica, e Joe Sumner, portato in tour dal padre grazie alla sua bravura (e ce n’è tanta) nel suonare l’armonica. «Ora dovrai fare la parte di Stevie Wonder» gli dice Sting, davanti a tutti. «In bocca al lupo ragazzo! » aggiunge poi, con un’espressione compiaciuta. A quel punto, con l’assolo di armonica, parte Brand new day, la title track dell’ultimo album degno di nota di Sting (datato, ahinoi, 1999) che nei vent’anni successivi ha prodotto sì tanta musica (quattro album di brani originali, una raccolta di madrigali del Seicento messi in musica, un musical più varie compilation con versioni delle sue canzoni in formato orchestrale e non solo), ma nulla che possa essere anche solo vagamente paragonabile a quanto fatto nei primi gloriosi vent’anni di carriera. Subito dopo Sting attinge nuovamente all’album Ten Summoner’s tales per scaldare il pubblico con la broadwayana Seven Days e, a seguire, propone la dolcissima Fields of Gold, che induce il pubblico ad alzare i propri smartphone per fare l’effetto delle mille luci che un tempo venivano create dagli accendini.
In lontananza nuvoloni carichi di elettricità sono attraversati da scenografici lampi, che fanno da naturale fondale a un concerto che non ha un attimo di pausa, che prosegue come un treno in corsa fra un brano e l’altro e che con il rithm’n’blues di Waiting for the break of day omaggia l’ultimo lavoro, quello con Shaggy, in uno dei brani più belli e sicuramente raffinati di quell’opera. La splendida e sempiterna Shape of my heart che segue è da brividi. Sting, in quel caso, si mette a disposizione, con la sua magistrale capacità di suonare il basso, nei confronti della band, che nei suoi singoli elementi emerge per amalgama e bravure individuali. È forse il momento più alto di tutta la performance, che però ha ancora molte sorprese da raccontare. Come la successiva Wrapped around your finger dall’ultimo mitico album dei Police, in una versione originalissima e distonica, che rende l’idea di ciò che probabilmente Sting aveva in mente, quando parlava di nuova vita delle sue canzoni. Il tono già nell’originale malinconico e qui virato ulteriormente ai toni minori rende questa versione di Wrapped un capolavoro assoluto. A pochi giorni dall’anniversario del cinquantesimo anniversario dello sbarco dell’uomo sulla luna non poteva mancare Walking on the moon che incanta il pubblico nel medley con Get up stand up di marleyana memoria. La successiva So lonely – dai ritmi reggae e punk rock – viene cantata a squarciagola dagli ottomila. Sting con il reggae… regge e si diverte: fa cantare il pubblico in continui dialoghi vocali, incita a battere le mani a tempo e non molla la presa un solo momento. La Live Arena si trasforma in un’immensa bolgia, anche perché subito dopo arriva una delle più celebri hit di Sting, quella Desert Rose dai toni arabeggianti e che vira nel finale su sound quasi da discoteca, che accentuano ulteriormente quella sensazione festaiola. L’ultimo brano del set è un’altra immancabile hit dei tempi dei Police: Every breath you take, dai toni dolci all’inizio e che diventa sempre più incalzante e ritmata nel finale.
Dopo qualche secondo di pausa Sting rientra per i bis e sorprende con una splendida versione di King of Pain, quasi irriconoscibile nel suo incipit, e incalza poi il punk rock di Next to you, che ha il potere di far alzare tutti in piedi. Esce di nuovo, ma rientra subito dopo da solo, per finire in fondo così come aveva iniziato: alla chitarra e voce, questa volta per chiudere dopo quasi un’ora e quaranta di musica ininterrotta con la struggente Russians (una vera e propria chicca di questo tour) e la tradizionalissima Fragile, che da sempre rappresenta l’atto conclusivo dei suoi concerti. Sting, insomma, con questo tour, eloquente già nel nome (My Songs), spiega a tutti le intenzioni di cancellare il recente passato con un salutare sguardo verso ciò che è, senza compromessi. In fondo, come recita in Englishman in New York, bisogna sempre essere se stessi, perché non importa cosa dicono gli altri. E Sting forse l’ha (finalmente) capito. Speriamo che la collaborazione con Shaggy rappresenti – pur con qualche distinguo – uno scivolone che non tornerà più a ripetere. Meglio essere se stessi con la propria storia, pur se ripetitiva e a volte senza nuova linfa d’ispirazione ma senza rinnegarla mai, piuttosto che avviare attività che definire commerciali è poco e che possono, alla lunga, minare la credibilità di un artista che, al contrario, ha segnato con la sua arte la storia della musica mondiale.