Era il 17 luglio 1994. Esattamente 25 anni fa. E le nazionali di calcio di Italia e Brasile quel giorno, ma in Europa era sera inoltrata, giocarono la finale del Campionato del Mondo a Pasadena, in California, alla Rose Bowl Arena. Era l’atto finale del primo mondiale disputato negli States, allora presieduti da Bill Clinton, e che tanta attesa e curiosità suscitarono nel resto del globo. Per l’accoglienza degli americani nei confronti di uno sport considerato estraneo da sempre alla loro mentalità, e che solo ora sta cominciando ad attecchire, e per le tante sorprese – vedi, fra le altre, meteore come Bulgaria e Svezia in semifinale – che seppe “creare” nel corso del torneo. Era, quello, l’ultimo Mondiale di un fenomeno chiamato Diego Armando Maradona e il secondo del fresco di Pallone d’Oro Roberto Baggio, che dopo aver dato del “pazzo” in diretta interplanetaria al suo allenatore Arrigo Sacchi (che lo stava sostituendo in una drammatica partita del girone contro la Norvegia, che gli Azzurri poi riuscirono a battere pur in dieci contro undici), trascinò a suon di gol la Nazionale fino alla finalissima contro i verdeoro di Bebeto e Romario, in una sorta di remake della finale di Mexico ’70. Quella, per intenderci, del pazzesco gol di testa di Pelé e dell’umiliante 4-1 per i sudamericani che surclassarono Rivera&C., reduci dall’estenuante 4-3 – “la partita del secolo” –in semifinale contro l’indomita Germania Ovest. Una rivincita, dunque, per gli Azzurri. Una partita che venne giocata a mezzogiorno di una calda giornata estiva californiana, con una temperatura che sfiorava i quaranta gradi e un’umidità che non lasciava scampo agli atleti in campo. Ma per lo share televisivo, si sa, questo e altro.

Per la generazione nata giusto a metà dei mitici anni Settanta erano, quelli, i giorni degli esami orali di maturità e della fine di un’epoca, la scuola, e l’inizio di un’altra, il mondo del lavoro o l’università. Erano per l’Italia anni in chiaroscuro, caratterizzati, nella prima parte del decennio da Tangentopoli e dal passaggio alla cosiddetta Seconda Repubblica, dalle stragi di Mafia (Falcone, Borsellino, i Georgofili) e dalla discesa in campo in politica di Silvio Berlusconi. Furono, quelli, gli anni della Guerra nel Golfo – forse il primo shock della nostra adolescenza anche perché prima guerra della storia vissuta in diretta televisiva, grazie al canale americano CNN – e di una crisi economica per sovrapproduzione che segnò le scelte politiche della classe dirigente dell’epoca. Il petrolio alle stelle, la Fiat in crisi, il PCI che si trasformava lentamente in quello che poi, molti anni dopo, sarebbe diventato l’attuale PD (che quella C di “comunista” ormai non sa neanche più cos’è).

Non esistevano ancora gli smartphone, che all’inizio del secolo successivo avrebbero modificato profondamente comportamenti, mentalità, modi di vivere e di pensare e il principale responsabile di questa rivoluzione, Steve Jobs, cacciato dalla Apple dopo averla fondata al tempo si dedicava a rivoluzionare più “banalmente” il mondo dei cartoni animati con il suo Toy Story. Il primo maggio di quell’anno, il 1994, il pilota brasiliano Ayrton Senna aveva perso la vita in seguito a un incidente avvenuto sulla pista di Imola. E il mondo della Formula 1 non sarebbe stato più lo stesso.

Ayrton Senna

La finale di Pasadena rappresenta tutt’ora una ferita aperta per molti appassionati di calcio italiani, in parte cicatrizzata dalla vittoria che l’Italia seppe ottenere tre edizioni dopo, del 2006. Ma quel rigore di Baggio calciato alle stelle, rigore che ha ispirato poi libri, canzoni e persino pubblicità (di pessimo gusto, ci verrebbe da dire) è apparso fin da subito a tutti come il simbolo del nostro Paese che sa, o sapeva, arrivare molto vicino agli obiettivi più prestigiosi, ma che spesso fatica, o faticava, a raggiungere. Un Paese capace di valorizzare al massimo i suoi talenti, salvo poi arrivare sempre a un solo maledetto passo dalla gloria, senza mai raggiungerla. Non sappiamo, onestamente, se esista qualcosa di più struggente e vicino alla sublimazione artistica di questo. Ce lo ha dimostrato Ettore nell’Iliade nel meraviglioso scontro contro Achille o più recentemente Roger Federer nei giorni scorsi, celebrato da tutti ben più del vincitore dell’epica finale di Wimbledon persa dopo una maratona senza fine contro il serbo Novak Djokovic. Di certo a Baggio, che non fu l’unico a sbagliare quel giorno il penalty, visto che prima di lui fallirono anche Franco Baresi e Daniele Massaro, abbiamo continuato a voler bene anche dopo. Anzi, forse ancor di più, perché eroe romantico e incompiuto, capace di prendersi quasi interamente il peso della squadra sulle spalle salvo poi fallire sul più bello.

Chi nasceva in quei giorni di metà anni Novanta oggi ha spalle larghe e sguardo rivolto al futuro. La vita, si sa, scorre via veloce e chi guarda al passato per celebrare gli anniversari non può che avere un moto di nostalgia, per gli anni della giovinezza in cui tutto ovviamente appariva più bello. Il mondo, peraltro, da allora è cambiato e tanto e non è detto che sia peggiorato. Ma in tanti sono rimasti quegli stessi ragazzini che in quei giorni affrontavano il primo vero esame della propria vita e si ritrovavano, la sera, nei caroselli festanti dopo ogni vittoria della Nazionale.

Silvio Berlusconi nel 1994