La Sacerdotessa del Rock è tornata a Verona e ha celebrato il suo rito collettivo in un Teatro Romano gremito in ogni ordine di posto. Il concerto di Patti Smith, inserito nel cartellone del Festival della Bellezza, è stato l’ennesimo abbraccio fra una delle rocker più note, influenti e longeve nella storia della musica e il pubblico veronese, ormai abituato negli ultimi anni a vederla, sentirla, viverla. Dopo i concerti del 2015 e del 2017, eccola quindi di nuovo qui, lei, che ha attraversato i decenni, i lutti, le disgrazie e le rinascite di una vita, con tutti i suoi segni in faccia e fra i capelli, senza un minimo di vergogna (e perché dovrebbe mai, in effetti), con la naturalezza di chi non si è mai posta la domanda su cosa pensino gli altri di lei, ma badando solo a ciò che – giustamente – le interessa dire e soprattutto fare.

Il cielo è ancora chiaro quando la serata viene aperta dalla figlia di Patti, Jesse Smith, che prima canta un brano al pianoforte, accompagnata solo dal batterista della band Jay Dee Daugherty, e poi si lancia in un accorato appello in italiano (che, dice, sta studiando) contro il cambiamento climatico invitando il pubblico a firmare una petizione affinché anche Verona rientri nel progetto delle mille città del mondo che entro il 2040 dovranno diventare a impatto energetico zero. L’esempio, dice, potrà poi essere virtuoso sul resto del mondo per cercare di salvarlo. Il Teatro Romano apprezza e applaude, anche perché subito dopo entra in scena il resto della band (la “famiglia”: Lenny Kaye alle chitarre e Tony Shanahan a basso e chitarre) insieme ovviamente a lei, Patti dalla lunga chioma bianca, jeans neri, maglietta bianca, gilet e giacca, oltre agli immancabili stivali. La sua inconfondibile mise, insomma. E parte subito la musica. Calda, coinvolgente, con un mix di chitarre acustiche e pianoforti ad avvolgere sonoramente la semiconca del teatro.

La scaletta prevede un crescendo di ritmi, con il semiacustico a farla da padrone (le chitarre di Kaye sono avvolgenti, il basso di Shanahan riempie i vuoi, i ritmi di Daugherty – che usa spazzole e mazze – sempre al limite, mentre le tastiere di Jesse sono quasi impercettibili, fino a quando non si mette al piano, che diventa a quel punto protagonista) non solo i suoi brani più celebri (da Gloria – particolarmente tribale – a Dancing Barefoot, dall’immancabile Because the Night a Pissing in a river) ma anche alcune pregevoli cover, fra cui Hard rain di Bob Dylan, A perfect day di Lou Reed e Cant’ help falling in love di Elvis Presley, dedicata a Verona. Lei, la Sacerdotessa, non si risparmia nemmeno un secondo, si concede con larghi sorrisi, i celebri sputi e soprattutto il meglio del suo repertorio (ma non solo). E il  pubblico, sentitamente, ringrazia, lasciandosi coinvolgere dalla sua voce (tornata ai massimi livelli) e dalla sua fluente gestualità, sempre originale. I cori dei suoi compagni di avventura non servono a sostenere la voce, ma a fare da contrappunto, con melodie vocali che creano atmosfere fluide e sempre armoniose.

Ride Patti, interrompe le canzoni, le riprende, parla con il pubblico in un clima assolutamente intimo e intimistico, creato con la naturalezza dei grandi. Un pubblico, fra l’altro, composto da almeno quattro generazioni, con ragazzini giovanissimi (bimbi portati dai genitori) e ultraottantenni, che ritrovano evidentemente l’amica di gioventù. E allora eccola lì, lei, a raccontarsi senza alcun timore, con i suoi amori, le sue dediche (alla statua di Dante e al padre di sua figlia Frederick Smith), il suo “happy birthday to you” cantato a Tony, il padre della sua manager seduto in platea e i suoi aneddoti, come quello legato ai suoi occhiali rotti che, dopo le tappe in Inghilterra e Germania, sono stati finalmente riparati a Verona: «E quindi grazie a te, anonimo ottico di Verona», conferma. E poi li inforca, gli occhiali, e canta It’s a dream di Neil Young, una sorta di preghiera per tutto quello che ha vissuto e continua a vivere tutt’ora lei e il suo sogno americano di musicista d’altri tempi.

Il finale è ovviamente con l’inno People have the power cantato a squarciagola da tutto il pubblico, sceso ormai a quel punto fin sotto il palco per toccarla e ascoltarla da vicino e celebrare il rito fino in fondo. «Se credete in qualcosa, non arrendetevi mai e lottate sempre fino in fondo per i vostri sogni» invita, prima di attaccare il brano. E un finale più bello proprio non lo si poteva immaginare.