Puliero, uno sguardo sull’infinito
Intervista a Roberto Puliero, fondatore della compagnia teatrale La Barcaccia, che spegne le 50 candeline. Il regista ripercorre i cambiamenti avvenuti nel teatro e si toglie qualche sassolino dalle scarpe.
Intervista a Roberto Puliero, fondatore della compagnia teatrale La Barcaccia, che spegne le 50 candeline. Il regista ripercorre i cambiamenti avvenuti nel teatro e si toglie qualche sassolino dalle scarpe.
La Barcaccia spegne le cinquanta candeline. Un compleanno d’eccezione per una delle compagnie più importanti non solo del panorama teatrale scaligero ma anche di quello nazionale. Tra i fondatori e storici volti di questa splendida realtà c’è ovviamente lui, Roberto Puliero, amatissimo dai veronesi. Tra passato, presente e futuro, abbiamo avuto modo di ripercorrere insieme a lui questo mezzo secolo di scena, ma anche di condividere qualche riflessione su quali cambiamenti abbiano caratterizzato l’ambiente culturale veronese.
Roberto, torniamo al lontano 1969, cosa ricordi di quei tempi?
«Era un periodo di grande fermento culturale, molti seguivano il teatro, lo conoscevano. La Rai svolgeva un ruolo importantissimo in tal senso perché lo diffondeva con continuità, anche in prima serata, portandolo in ogni casa. Ricordo che ero uno dei ragazzi più famosi del Liceo (Scipione Maffei, nda) proprio perché facevo teatro, oggi viceversa sono certo che sarei considerato solamente uno sfigato. D’altra parte, anche all’epoca Verona non aveva una compagnia stabile, c’erano dei teatranti che andavano in scena per il tempo sufficiente a portare a termine le rappresentazioni, poi si scioglievano.»
Voi invece avviaste un percorso duraturo…
«L’occasione ci fu proposta da Luigi Barbesi, noto grecista che aveva il sogno di vedere realizzarsi una prima stabile compagnia veronese. Facemmo Antigone, tragedia di Sofocle al Teatro del Due Torri, io ero il più giovane di tutti. Poi, invece di scioglierci, ci siamo ripromessi di darci delle basi e delle regole per la nostra attività, costruendo una struttura organizzativa che non fosse condizionata dalle scelte dell’uno o dell’altro. Ecco com’è nata La Barcaccia: una compagnia che ha retto ai successivi abbandoni di diversi fondatori, senza che ciò precludesse la prosecuzione dell’iniziativa.»
Siete stati lungimiranti e, in qualche modo, innovatori, non credi?
«Senza dubbio. Nei primi anni ci si muoveva a fatica, avevamo preso in affitto una vecchia stalla in Via Satiro che, a nostre spese, adattavamo per le rappresentazioni. Dal 1972, se non sbaglio, cominciammo a fare più di dieci recite all’anno, diventarono cinquanta, poi cento. In quel locale con non più di un centinaio di posti, in cui a volte schiacciate ci stavano più di 150 persone, ci passarono Conte, Guccini. Il clima che si respirava era diverso da quello di oggi, in cui chi fa unicamente teatro è sconosciuto.»
Sicuramente la Comunicazione è cambiata fortemente, ma forse non alludi solo a questo.
«La Barcaccia ha vissuto cinquant’anni in cui la comunicazione è cambiata come mai in uguali periodi precedenti. È un aspetto da tenere in grande considerazione: oggi, infatti, si utilizzano mezzi di comunicazione artificiali – vedo che per messaggio si lasciano pure le morose, assurdo –. Il teatro è ben altra cosa, è la forma d’arte che più si avvicina alla realtà. C’è però un altro elemento che contraddistingueva quegli anni: il pubblico in generale conosceva di più il teatro, c’era più confronto e la critica, professionale e autorevole, era uno stimolo importantissimo per noi e per tutti gli artisti. L’ambiente favoriva la qualità, oggi invece a volte ho la sensazione che i critici lodino sia i bravi che i meno bravi. A Verona questo accade più che altrove, a Vicenza per esempio è già diverso. Pensa che da giovane andavo a prendere il giornale con un’emozione paurosa, per il timore delle recensioni delle nostre recite. Se un attore non era bravo o se una recita non era di qualità, i critici lo scrivevano spietatamente mentre, se si ricevevano delle lodi, voleva dire che erano meritate davvero. Ora forse, vuoi anche per l’età, sono meno attento ai giudizi altrui.»
Ripercorrendo questi anni di attività, si può dire che il teatro sia stato, e lo sia ancora, la tua più grande passione?
«Un tempo si parlava del sacro fuoco che doveva animare gli attori. Forse è un’espressione esagerata, ma per me c’è, lo sento ancora. Il teatro non si tocca. L’ho sempre considerata una grande passione, il mio lavoro più importante, anche se non la primaria fonte di reddito. Nessun attore, nemmeno il più grande, può vivere di solo teatro. Paolo Stoppa fece anche cinema, Ernesto Calindri ebbe ruoli nei caroselli, tanto per citarne alcuni. Io, dopo aver insegnato per quasi vent’anni, posso dire di essere riuscito a dedicarmi al teatro grazie a diverse attività. Però non ci sono telecronache, serate, inviti che tengano; tutto passa in secondo piano se si deve andare in scena».
Parliamo del Puliero insegnante. Forse un aspetto meno conosciuto ai più. Che insegnante eri?
«Ho amato insegnare, lo amo ancora. Mi piace coltivare i talenti di giovani. Sono stato nella scuola fino all’inizio degli anni Novanta, forse oggi le cose sono cambiate, ma non so dire bene come e in che misura. È passato troppo tempo da quando ho smesso, intanto però l’evoluzione della comunicazione artificiale ha continuato a correre, credo che qualche problema lo abbia creato anche nelle scuole. Papa Luciani diceva che se vuoi insegnare il latino a Gigi, occorre prima conoscere Gigi. Mi trova molto d’accordo. Ci vuole un po’ di empatia, non tutti gli insegnanti ne sono dotati.»
A proposito di talenti, stai coltivando il futuro della Barcaccia attraverso lo sviluppo di giovani appassionati?
«Per me è motivo di grande soddisfazione vedere qualche ragazzo o ragazza mentre scopre la gioia di andare in scena. Pensa che al Festival Nazionale “Maschera d’Oro” al Teatro Olimpico di Vicenza, uno dei luoghi più belli del mondo in cui recitare, nelle ultime sei partecipazioni abbiamo sempre ottenuto il premio come miglior attore giovane, per giunta con ragazzi diversi. Sono segnali che ci proiettano anche verso il futuro. Purtroppo, sono molti quelli che ottengono riconoscimenti di prestigio ma poi vengono distolti dal teatro per tanti motivi. Un tempo in vacanza si andava sul lago di Garda a Lasise, oggi i giovani vanno in Giappone, in Australia. Non è facile trovare ragazzi bravi e, quando li ha individuati, sono poi loro che scoprono un mondo nuovo, viaggiano moltissimo. È difficile tenerli.»
Parlavi del Teatro Olimpico di Vicenza, che rapporto hai invece con il Teatro Romano e più in generale con gli spazi teatrali veronesi?
«Per un attore recitare in teatri prestigiosi è una gioia incredibile. Una volta al Teatro Romano arrivammo anche a 12.000 spettatori. Rimane un dispiacere però che la nostra compagnia abbia avuto un rapporto poco costante con questo teatro. Al di là di tutto, negli anni abbiamo cercato di creare spazi nuovi quali cortili, ville, castelli. In città, in particolare, abbiamo adattato a teatro la Piazza Mercato Vecchio, il Vecchio Cortile Montanari, per finire con la riscoperta dell’Arsenale. È un po’ come dare nuovamente vita a certi ambienti, reinventarli.»
Una storia, quella della compagnia, che si lega indissolubilmente con Verona. Se dovessi utilizzare tre parole per descrivere la nostra città?
«Bella. È un aggettivo banalissimo, ma rende. Poi dico rovinata e mal amministrata, mal governata. Non solo dalla Giunta in carica, il problema è annoso. Qualcuno ha fatto male, qualcuno meno peggio, manca però un’amministrazione illuminata ormai da troppo tempo. In generale la cultura viene messa in relazione con il fare soldi, penso al balcone di Giulietta, una finzione. Capisco che sia redditizia, ma noi ci promuoviamo con un falso, invece di valorizzare altre nostre eccellenze e bellezze. Quello che inoltre sconvolge adesso è la totale assenza di rapporti della nostra compagnia con il Comune. Secondo me un assessore alla Cultura dovrebbe annualmente chiamarti e chiederti: “sa feto st’ano?”. Al momento l’assessore Francesca Briani, a mio modo di vedere, non si interessa minimamente, è appunto assente. L’anno scorso abbiamo messo in scena La Serva Amorosa, non è il principale capolavoro di Carlo Goldoni, ma è ambientato interamente a Verona. Ci sono state testimonianze e documenti che affermano che il commediografo veneziano sia stato a Verona, abbia visitato l’Arena e lì abbia assistito a rappresentazioni di attori che avevano allestito un palco proprio al centro della platea dell’Arena, ben prima di Claudio Baglioni. Credo che con un Comune si dovrebbe quantomeno parlare di queste cose, magari provare a progettare qualcosa in più. Invece c’è indifferenza verso il teatro, forse perché non lo conoscono. Però se la cultura si riassume solo in mero tornaconto economico, è una strada sbagliata. Penso all’Arsenale e mi chiedo quante cose si potrebbero fare, non certo supermercati e ristoranti. Il Comune si fa bello per allestirlo d’estate, manca però la cura di farlo nel modo giusto per lo spettatore. D’altra parte, la loro fortuna è che noi siamo ben felici di recitare e continueremo a farlo con grande gioia, lottando in ogni modo per mantenere alta la qualità delle proposte.»
Dalle tue parole si delinea Verona come ambiente difficile per il teatro. Da una parte un mondo che comunica sempre più in maniera artificiale, dall’altro le Istituzioni più interessate alle offerte simil culturali di massa, infine nessuno stimolo dalla critica.
«Aggiungo che l’editoria teatrale non produce quasi più nulla, non è facile trovare dei testi adatti. Anche perché i lavori a due o tre attori non credo siano l’ideale per le proposte estive. Qualcuno dice: “te si mato”, però io cerco sempre di mettere in scena un kolossal. Capisci bene che allestire rappresentazioni con tanti attori non sia facile.»
Roberto, torno un momento ancora alla questione legata all’amministrazione della città. Visto che ritieni il problema in una certa qual misura cronico, non pensi che sia un po’ colpa anche degli elettori ?
«In parte è vero, i veronesi dovrebbero scegliere le persone giuste. Credo però che il problema principale di Verona risieda in una stampa estremamente ossequiente. A Verona manca la stampa critica, quella che c’è non esercita una vera e propria funzione di controllo, come viceversa dovrebbe accadere. Faccio un esempio: se qualcuno oggi proponesse di erigere un Cristo di venti metri sulle Torricelle, subito tutti a Verona sarebbero pronti a rimbalzare la notizia, a renderla interessante. La stampa ha un potere importante e, credo, molte responsabilità.»
Che ne pensi invece del progetto di un nuovo stadio?
«Una stupidaggine paurosa, per quel che posso giudicare finora.»
Per gli appassionati di calcio sei “immortale”, in quanto voce delle telecronache dell’Hellas dello scudetto. Per molti veronesi il Verona è una fede… e per Puliero, invece, cosa rappresenta?
«Una fede forse è un po’ eccessivo. Il calcio è qualcosa che richiama le emozioni dei bimbi, i colori per esempio, e più in generale rappresenta sogni, gioie, tristezze. Oggi, a distanza di tanti anni, mi invitano ancora alle trasmissioni insieme ai Bagnoli, Volpato o Tricella. È un qualcosa che mi fa immensamente piacere, così come, l’ho sempre detto, mi riempie di gioia essere ancora la voce della squadra. Da telecronista sono cresciuto insieme alla squadra, condividevamo serate e viaggi. Adesso sono meno giovane ed è un po’ diverso, ma rimane sempre un piacere raccontare calcio agli appassionati.»
Sicuramente Roberto la tua vitalità intellettuale, contagiosa in ogni momento, la voglia di spendersi ancora su più fronti professionali, il carisma che ti contraddistingue sono un esempio importante per i più giovani. Grazie anche alla tua popolarità, ti senti un baluardo in difesa della cultura sul territorio?
«Baluardo forse è un po’ troppo, certamente sono tempi duri, in particolare per il teatro. Il futuro è difficile. Io andrò avanti all’infinito, d’altronde fino ai 70 anni mi sono sentito giovane e, nonostante qualche problema di salute poi superato, sono sempre riuscito ad andare in scena. Eredi? Forse; potrebbe esserci un aiuto regista, un ragazzo giovane. Però è presto per dirlo, anche perché servono tante prerogative per dirigere una compagnia teatrale, non basta conoscere il mestiere. Occorre capire come sfruttare al meglio le qualità altrui, non è facile. Io, come detto, vado avanti all’infinito.»
Ringraziamo Roberto per la disponibilità dimostrata e l’entusiasmo con cui ci ha coinvolto nel ripercorrere il teatro di allora e di oggi. La Barcaccia dall’3 al 21 luglio sarà impegnata all’Arsenale, occasione imperdibile per ripercorre il teatro Goldoniano, emblema caratteristico della Compagnia.