Hal 9000 è guarito e lotta insieme a noi
L'intelligenza artificiale, descritta nei film di fantascienza, è più vicina di quanto si possa immaginare. E un'italiana, Silvia Ferrari, lavora ad un progetto per svilupparla.
L'intelligenza artificiale, descritta nei film di fantascienza, è più vicina di quanto si possa immaginare. E un'italiana, Silvia Ferrari, lavora ad un progetto per svilupparla.
La settimana scorsa, durante l’edizione 2019 di TEDxVerona, abbiamo avuto l’opportunità di fare una breve chiacchierata con Silvia Ferrari, uno dei dodici relatori che ci hanno saputo intrattenere con i loro spunti e suggestioni durante la lunga giornata di storie e fantastiche esperienze.
Silvia è di lontane origini modenesi, ma vive negli Stati Uniti da molto tempo, tanto da preferire la lingua inglese per l’intervista. Appare giovane, timida, quasi fuori posto nel clamore e le luci della sala stampa. È difficile riuscire a immaginarla nel suo incarico di professore presso la Cornell University di Ithaca, NY dove insegna Ingegneria meccanica e aerospaziale. Nel 2006 ha ricevuto il premio PECASE, consegnato dal Presidente degli Stati Uniti ai migliori scienziati e ingegneri a inizio carriera e nel 2014 è stata inserita tra le 25 donne più promettenti al mondo in un ambito veramente intrigante: l’apprendimento e l’autonomia delle macchine. In soldoni, Silvia studia e sviluppa sistemi di programmazione e controllo intelligenti per permettere ai robot, che già ci sostituiscono in molte mansioni della vita quotidiana e professionale, di fare il passo successivo: imparare a interpretare i dati raccolti e agire di conseguenza.
Durante la sua presentazione sul palco del TEDxVerona è impossibile staccare gli occhi dallo schermo e da lei, dalla corporatura minuta – la classica ragazza della porta accanto –, che però racchiude in sé tanta conoscenza e la racconta con semplicità e orgoglio. Il talk tratta i molteplici utilizzi che possiamo fare delle macchine, mostrando per esempio un piccolo drone istruito per la ricerca di persone scomparse in luoghi impervi, che sa riconoscere da lontano una fonte di calore, ma anche a quale specie appartiene, se umana o animale. Il fatto che tale robottino sia denominato Robo-bee («Ape robot») non sembra assolutamente casuale, anzi… è un chiaro omaggio a una delle serie più famose e controverse degli ultimi anni, Black Mirror (e chi non sapesse di cosa parlo, farebbe molto bene a colmare questa sua lacuna; nessuno è più lo stesso dopo un paio di puntate…).
Silvia, la tua ape robot mi ha provocato un brivido lungo la schiena, ripensando alle api assassine di quella celebre puntata di Black Mirror…
«Ma certo (ride) il nome è in effetti evocativo, tra noi amanti della serie! Il nostro drone, però, non serve a impollinare i fiori, bensì a salvare vite. La tecnologia è ormai entrata prepotentemente nelle nostre vite, un fattore che non possiamo ignorare; come per tanti altri temi, conoscere e contribuire al progresso della tecnologia ci può anche aiutare ad indirizzarla verso la soluzione di importanti problemi e a ridurre il rischio di manipolazioni pericolose.»
Hai poi risolto il dubbio – che hai preso in prestito dal libro di Philip K. Dick che ha poi ispirato Blade Runner – per dare il titolo al tuo intervento? Davvero i robot sognano pecore elettriche??
«Quello che stiamo cercando di ottenere è una reazione soggettiva da parte dei robot, un’elaborazione dei dati a disposizione che li porti a fare considerazioni simili a quelle che farebbe un essere umano, con un minor margine di errore, e a prendere decisioni e agire in base alle istruzioni ricevute. Non sono emozioni, a quello ci pensa Spielberg (il riferimento è al film A.I. – Intelligenza Artificiale del 2005, tratto da un soggetto di Stanley Kubrick – nda) come sento spesso nei media quando viene presentato l’ultimo modello di robot umanoide; è una forma di intelligenza, ma artificiale e questo non va mai scordato. Il robot impara, ricorda, comprende il linguaggio e i movimenti del corpo e si muove di conseguenza, ma sempre nell’ambito del programma che gli abbiamo installato.»
È stato molto interessante vedere dal vivo e in azione il drone che hai portato con te, allenato a seguire chi porta occhiali di un certo tipo e a seguirlo nei movimenti. Tu usi il verbo train («allenare») per i robot, come se si trattasse di un cagnolino ma la questione è ben diversa, o no?
«Beh sono molte le similitudini, in effetti. Come puoi insegnare al cane a rispondere al tuo richiamo, io insegno al mio drone che deve seguirmi se porto questi occhiali, anche se faccio movimenti inattesi e finché non gli faccio un cenno di atterrare. È un pochino più affidabile di un cane e poi non sporca! (ride, nda).»
Cosa pensi ci porterà il futuro? Sono sicura che i robot non ci sostituiranno, commettono ancora troppi errori, come la tua ape che ha scambiato il grosso labrador per un orsetto (salvo poi correggersi). Credo, però, che avranno un ruolo sempre più grande nelle nostre vite.
«Ne sono assolutamente convinta e ritengo che la chiave del prossimo passaggio evolutivo sarà nell’interazione tra uomo e macchina, come già accade ad esempio con il pilota automatico. Gli uomini sbagliano, il pilota automatico è sicuramente più sicuro, ma spesso è necessario che uomo e macchina interagiscano e da come si svolge questa collaborazione. Da questi pesi diversi e dai ruoli di ciascuno dipenderà il buon esito finale.»
Tu coordini il Laboratorio di intelligenza artificiale della Cornell University e collabori con altre università, come il MIT di Boston, per la realizzazione dei robot che avranno questa marcia in più. Pensi che la tecnologia sia già tutta a disposizione o ci saranno ulteriori scoperte e sviluppi anche sotto il profilo scientifico?
«Dobbiamo raggiungere un nuovo livello di affidabilità, irrobustire la tecnologia esistente con nuovi materiali, nuovi recettori e soluzioni innovative per le comunicazioni. Gli ambiti in cui ci aspettiamo importante crescita sono nella maggior adattabilità dei robot ad ambienti e contesti diversi, mentre ora vanno riprogrammati ogni volta, e ovviamente nella minor dipendenza della macchina rispetto all’intervento umano, e nell’ampliamento dello spettro per il comando a distanza. C’è, quindi, ancora moltissimo da scoprire e inventare.»
Su una nota più leggera, cosa ti pare dell’evento, dell’organizzazione, dei tuoi colleghi relatori? Hai avuto modo di conoscerli?
«In effetti, obbedendo mio malgrado al cliché dello scienziato nerd, non ho ancora parlato con alcun collega, perché sono stata molto occupata con il drone. Non dirlo a nessuno, ma non voleva saperne di obbedire e abbiamo dovuto riprogrammarlo all’ultimo momento!»
Nel suo intervento prima e a quattro’occhi poi, Silvia Ferrari ci racconta di un mondo che noi da ragazzi vedevamo nei fumetti, immaginavamo nei romanzi di Philip K. Dick, in qualche film di fantascienza. L’intelligenza artificiale darà una bella spallata a tutte le nostre conoscenze e competenze, rivoluzionando il mondo dell’istruzione e del lavoro; ma non potrà mai prescindere dall’intelligenza reale, umana, di cui questa donna sembra possedere una quantità infinita.