Il 25 aprile 1979 usciva nelle sale Manhattan, forse uno dei lungometraggi più belli e determinanti nella carriera di Woody Allen.

L’incipit, lo ricorderete, è uno dei più memorabili della storia del cinema: lo schermo si apre con diverse inquadrature della città e la fotografia è del fidato Gordon Willis, che sceglie di sottoesporre la pellicola, creando un bianco e nero che vira al chiaroscuro.

Sono passati 40 anni e, proprio grazie anche a quel bianco e nero, possiamo affermare che il film non ha risentito del tempo trascorso.

Alle immagini dalla fotografia quasi iperrealistica si contrappongono la Rapsodia in Blu di George Gershwin e la voce di Allen che offre un saggio d’amore verso la metropoli: «Capitolo Primo. Adorava New York. La idolatrava smisuratamente. […] Per lui in qualunque stagione questa era ancora una città che esisteva in bianco e nero e pulsava con i grandiosi motivi di George Gershwin».

Manhattan è la pellicola che manifesta la maturità e lo stile del cineasta newyorkese; è infatti il primo film in cui la slapstick comedy e l’umorismo ebraico, seppur sempre presenti, hanno meno importanza. Ricordiamo che nel 1978 Allen aveva portato sullo schermo Interiors, il primo lungometraggio drammatico ispirato al cinema di Ingmar Bergman, nel quale compare solo come regista. Anche se la pellicola viene accolta freddamente dalla critica gli permette di raffreddare la sua comicità. Il suo stile diventa più riflessivo, i grandi temi sempre presenti nelle sua filmografia (il sesso, l’amore, la morte, il ruolo dell’arte, la psicoanalisi, la religione) vengono qui approfonditi maggiormente. La comicità corrosiva lascia spesso spazio a uno sguardo disincantato sui fatti. L’amore si fa più romantico e la scena finale lo svela in tutta la sua chiarezza: Ike (Allen) sdraiato sul divano parla a un registratore raccogliendo idee per un romanzo ed elenca ciò che per cui vale la pena vivere. Improvvisamente gli giunge alle mente il pensiero di Tracy (Mariel Hemingway): si alza e corre da lei senza risparmiare fiato, anche se il finale poi sarà tutt’altro che scontato.

I carrelli, le lunghe scene e i movimenti di macchina sono più fluidi, spesso è la stessa città a essere la vera protagonista per un film corale e non più incentrato su un unico protagonista, come nei precedenti lavori di Allen.

“The Village Voice” lo definì «l’unico vero grande film americano degli anni Settanta». Se Bertolucci con L’ultimo tango a Parigi reinventa l’immaginario della capitale francese, Allen alla stessa maniera costruisce l’immaginario filmico della Grande Mela.

Il cast ovviamente è formidabile, Diane Keaton (Mary), alter ego di Allen, incarna l’intellettuale snob, sentimentalmente irrisolta, che si accontenta di scrivere romanzi tratti da film invece di dedicarsi alla letteratura. Michael Murphy (Yale) miglior amico di Allen, come ricordano Girlanda e Tella: «si compra una Porsche piuttosto che fondare una rivista letteraria, non vuole bambini perché sono d’intralcio, ma si trova invischiato in una ronde di amori inconsapevoli». La diciassettenne Mariel Hemingway (Tracy), giovanissima fidanzata di Ike, è l’unica figura positiva del film perché, seppur cosi giovane, mantiene l’integrità morale e la lucidità assente in tutti gli altri protagonisti della commedia.

Allen ed Hemingway

Tutta la pellicola è girata nei luoghi conosciuti dal regista (Elaine’s Café, il piccolo ristorante sulla seconda Avenue e la John’s Pizzeria) e rappresenta, per questo, un vero e proprio atto d’amore, per New York, che qui appare trasognata e resa ancor più romantica dalle inquadrature notturne: il cineasta relega ai margini dell’inquadratura Ike e Mary (Allen e Keaton) nella loro passeggiata notturna che culmina nella famosa scena con i protagonisti seduti sulla panchina che guardano il ponte di Queensboro che unisce l’isola di Manhattan al Queens.

Perché riguardare questa pellicola, o per chi ancora non lo ha fatto, affrontarla per la prima volta? I motivi sono diversi, ma il più importante è che in fondo ogni inquadratura trasuda l’amore del cineasta verso i suoi personaggi e non importa se sono snob, nevrotici, irrisolti nei loro comportamenti… noi in fondo in cuor nostro li salviamo e ne siamo affezionati fin dai primi istanti. Come recita Yale, che viene redarguito da Ike per i suoi comportamenti troppo incoerenti: «Noi siamo persone, solo esseri umani…».

Manhattan è un film che anche se manca di lieto fine ci fa innamorare di questo lungometraggio, in grado di solleticare le nostre fantasie. Lasciamoci, quindi, cullare dai locali fumosi, dai musei, dalla frenesia della città… facciamoci catturare dalla emotività che ne scaturisce, come in fondo fa Tracy, che con la sua freschezza e gioventù riesce ancora a sorprendersi e a gioire di una semplice gita in carrozza al Central Park.

5/5

Manhattan (1979)
Regia di Woody Allen
Con Woody Allen, Diane Keaton, Michael Murphy, Mariel Hemingway, Meryl Streep, Anne Byrne Hoffman, Karen Ludwig, Michael O’Donoghue