Che la farmacia non sia solo ed esclusivamente un punto vendita di medicine, ma sia un luogo qualificato, dove professionisti esperti fanno fronte alla “domanda di salute” dei cittadini, impegnandosi a fornire al cliente consulenze in modo riservato e personalizzato (non certo per sostituirsi al medico, ma eventualmente per integrare ulteriormente le informazioni), dovrebbe essere ovvio. Così come dovrebbe essere scontato che, in questa ottica, la farmacia si svesta di una concezione meramente commerciale e affaristica, per acquistare una valenza professionale e costruttiva, volta al benessere e alla crescita culturale prima che salutistica del paziente.

Ho usato il condizionale, perché, naturalmente, come spesso accade, ciò che ci si aspetta non è quello che poi arriva e questo, nel multiforme e vario universo di farmacie e farmacisti, dipende da due aspetti fondamentali. Primo: le modalità di gestione della farmacia da parte del titolare. È chiaro che, se è il titolare a privilegiare l’anima commerciale della farmacia e a ridurre la sua professione a semplicistica, benché succulenta, questione di incassi e ritorni economici, la nostra riflessione muore qui, al suo nascere. Ma posto che, invece, il titolare voglia esercitare la sua professione, mettendo in secondo piano il volume d’affari (il ché non vuol dire trascurarlo, ma vincolarlo a determinate scelte deontologiche) e prediligendo una conduzione della farmacia orientata alla educazione del cliente, all’ascolto delle sue problematiche e al consiglio, allora – e arriviamo al secondo punto – bisogna oltrepassare il bancone di dispensazione e considerare quella che in gergo si definisce la “domanda di salute” dell’utente. Questa definizione tecnica, tradotta nella lingua d’uso quotidiano, sta a indicare ciò che ognuno di noi, o meglio di voi, dal momento che chi vi scrive è farmacista da anni, si aspetta quando varca la soglia di una farmacia e, destreggiandosi tra scaffalature, totem, cartelloni, offerte, finalmente arriva alla presenza del farmacista.

Qual è, dunque, la domanda di salute del cliente a cui il farmacista di volta in volta si trova a dover affrontare? Rispondere è cosa ardua, se non altro perché l’umanità che accede alla farmacia è molto varia, ha perplessità ed esigenze diverse e, quindi, inevitabilmente, vede il farmacista in maniera diversa. Ma il modo in cui il cliente si pone nei confronti del farmacista, quello che si aspetta da questa figura in camice bianco, che lo attende dietro il banco, è importante almeno quanto il modo in cui il farmacista cerca di provvedere alle sue esigenze.

In molti casi chi entra in farmacia si sente, per l’appunto, semplicemente un “cliente”. Non ha alcuna domanda di salute da “rivolgere” al farmacista; la sua condizione di paziente l’ha già vissuta nello studio medico, durante la visita, mentre il dottore, auscultandolo, gli ha snocciolato la sintomatologia della sua malattia. Una volta uscito dall’ambulatorio con la ricetta medica con sopra indicato, a (non sempre) chiare lettere, il rimedio miracoloso, non gli resta che andare in farmacia e ottenere il “prodotto”, sperando che il farmacista sappia decifrare i geroglifici incomprensibili della prescrizione medica. Non si aspetta che il farmacista, nei limiti delle sue conoscenze e nell’imprescindibile rispetto dei diversi ruoli professionali, possa (e debba) operare una discreta e a volte essenziale attività di verifica e controllo anche delle prescrizioni mediche, dando un contributo, in questo senso, alla creazione e al consolidamento di un sistema di solidarietà sociale e di alleanza terapeutica con il medico e il paziente.

E in effetti, a detta di molti farmacisti, la maggior parte di coloro che entrano in farmacia non sa di avere di fronte un professionista laureato esperto del farmaco: “ma voi siete infermieri, giusto?”, “ma voi studiate per fare i farmacisti?”, sono alcune delle domande che mi sono state rivolte nell’arco della mia decennale attività, senza contare le volte in cui i clienti si sono rivolti a me con “signore”, “commesso”, “ragazzo”, “giovane” e innumerevoli variazioni su tema. Questa categoria di “clienti” ignora che al farmacista, in quanto professionista con uno specifico percorso di studi alle spalle, ci si può rivolgere per chiedere un parere sulla corretta posologia e somministrazione dei farmaci, per avere preziose informazioni sugli effetti collaterali dei medicamenti, sulle interazioni tra farmaci e cibo, oppure, semplicemente, per condividere dubbi o esperienze personali. E purtroppo per noi farmacisti questa categoria è la più numerosa.

L’altra tipologia di utenti che entra in farmacia è quella dei “pazienti”: questo gruppo è sicuramente meno nutrito del primo, ma è per il farmacista motivo di somma gioia e superlativa gratificazione professionale, perché comprende quelle persone che, consapevoli di non essere solo ingranaggio di un mero meccanismo commerciale, si sentono “pazienti” del farmacista, instaurano con lui lo stesso rapporto di fiducia che li lega al medico curante e, coscientemente, si rivolgono al farmacista per attingere al bagaglio di esperienza e competenza di questo professionista del farmaco. Le richieste di questa seconda categoria sono diverse e spaziano dall’esigenza di ottenere informazioni utili alla prevenzione di alcune malattie, alla correttezza delle abitudini alimentari in correlazione a determinati disturbi metabolici, dalla necessità di risolvere piccoli “incidenti di percorso” che non necessitano di visite mediche o di ricoveri ospedalieri ai chiarimenti sull’utilizzo appropriato di alcuni devices farmaceutici.

Infine, non è da meno il supporto “psicologico” che in molti casi questi clienti si aspettano dal farmacista e che definirei come una capacità di ascolto e comprensione dei loro problemi personali, legati il più delle volte al travaglio angosciante di certe esperienze di dolore dirette o indirette, alla problematicità di gestione di genitori o parenti malati. In quest’ottica il farmacista competente deve saper cogliere in questi “pazienti” quella esigenza, a volte manifesta, altre volte latente, di parlare ed aprirsi su questioni delicate e problematiche molto personali. Questa è la tipologia di utenti che il farmacista agogna e la cui percentuale tra i soggetti che varcano la soglia della sua farmacia egli vorrebbe fosse pari al novanta per cento.

La “Farmacia dei servizi”, la “Farmacia come presidio sanitario” sono slogan che noi addetti ai lavori sentiamo ripetere da anni dalle alte sfere di ministeri, enti e associazioni di settore e ben vengano, così come ben vengano i progetti di sensibilizzazione, informazione e monitoraggio di farmaci e presidi che hanno come utenti finali i pazienti e come punti di riferimento sul territorio le farmacie, ma se la prima informazione e sensibilizzazione non la si fa a monte e cioè sulle competenze e sulla professionalità della figura del farmacista (che è il fulcro sia della farmacia dei servizi che di questi progetti), sarà difficile per noi poter espletare a pieno il ruolo che in pochissimi ci riconoscono, qualcuno immagina e la maggior parte ignora.