Ricorderemo questo 23 febbraio 2019 come il giorno in cui l’Arena perse un’altra ala. Inutile dire che, con la scomparsa di Giorgio Gioco, se ne va un pezzo di storia di questa città. Nessuno prima lui era stato capace di portare la tradizione di Verona fuori dalle mura tanto care a Shakespeare. Vi riuscì grazie al sentimento di amore profondo per la sua città fino a vestirne gli abiti di ambasciatore e timbrandone il visto per l’espatrio. Infuse la cultura nella sua cucina. Suona fin banale dirlo oggi, tempi in cui l’arte del gusto imperversa su carta e schermi (fin in eccedenza, oseremmo dire), ma il grande merito di un uomo come Gioco fu coniare e trasmettere quel connubio molto prima di chiunque altro. Capì che servire un piatto ben fatto non bastava, ma doveva avere anche un’anima, esprimere una storia e sprigionare emozioni ad essa legate. A spiegarle sarebbe poi toccato a lui, fine cantore. In questo fu un maestro assoluto e a suo mondo un deciso innovatore, proprio lui che si ergeva a paladino della tradizione.
Rese i 12 Apostoli un sacrario di gusto e intelletto conosciuto in tutto il mondo, attraverso le sue ricette e le attività culturali ad esse connesse. Maniacale nella ricerca della perfezione, elevò la semplicità all’alveo delle cose più difficili. Su quest’ossimoro costruì il proprio successo. La pasta e fasoi di Giorgio Gioco sta in una parata di Dino Zoff, in uno slalom di Gustavo Thoeni, in una sterzata di Niki Lauda, o nelle note della coppia Mogol-Battisti: tutta gente che dell’essenza ha fatto un capolavoro. Senza sfarzi, senza vanti, senza futili stucchi, così lontani dalla galassia di fenomeni sovrannaturali di cui oggi siamo circondati. La perfezione di ciò che è bello. Per questo Gioco era tanto rispettato, amato e richiesto.
Venne poi inevitabilmente anche per lui il giorno che il mondo cambiò e improvvisamente si trovò ad essere un uomo del passato. Correva il 1982 quando il Touring Club organizzò un dibattito a Bordighera tra lui e Gualtiero Marchesi: la tradizione a confronto con il nuovo che avanza. Sull’autostrada ligure deserta si affiancarono per pura coincidenza due 131 Mirafiori azzurrine: testimoni di due mondi differenti, Giorgio e Gualtiero viaggiavano su due auto assolutamente identiche. Di idee diametralmente opposte, condividevano in fondo la comune radice del buon gusto. Gioco uscì male da quel confronto, a Bordighera capì che la sua parabola aveva imboccato la curva discendente e si ritirò nell’intimo dei suoi scritti. Vennero tempi difficili, anni in cui I 12 Apostoli camminarono da soli sui sentieri dell’oblio.
La rinascita è arrivata recentemente grazie all’intuizione del nipote Filippo, che ha messo in atto la rivoluzione cambiando radicalmente il volto della casa di famiglia. Giorgio inizialmente non l’ha presa benissimo. Si sa del resto come il passaggio da passato a futuro scorra sempre sul presente di un crinale scivoloso. Ma poi quando pochi mesi fa, sua nuora Simonetta è salita nella sua camera ad annunciargli che i 12 Apostoli erano tornati a essere un ristorante stellato, lui ha abbozzato un timido sorriso e ha risposto: «Avevate ragione voi». Se ne è andato sereno, conscio di non aver lasciato nulla d’incompiuto nel suo lungo cammino. È stato un uomo del passato, ma il suo è un messaggio buono non solo per il presente, ma soprattutto anche per il futuro. È la grandezza dei semplici. Per quelli come lui la terra non potrà essere che lieve. Grazie maestro.