Mario Battistella, un veronese in Merica all’alba del XX secolo.
In uno dei più importanti libri sull’emigrazione, Sull’Oceano di Edmondo De Amicis, pubblicato nel 1889, un emigrante lo dice in maniera molto efficace: «Mi emigro per magnar».
Mario Battistella Zoppi da Monteforte d’Alpone a quattordici anni voleva anche inseguire un sogno di fortuna. Chissà da dove venne l’idea a questo ragazzo, figlio di Angelo ed Eleonora Zoppi. Sono i primi cinquanta anni dell’Unità d’Italia e i primi dieci dell’entusiasmo per il nuovo secolo, il ventesimo. Gli anni 1910, comunemente chiamati anni dieci, sono il decennio che comprende gli anni dal 1910 al 1919 inclusi. Un campanile bianco a piani digradanti, sottile e altissimo che svetta su un mare verde di vigneti: ecco Monteforte d’Alpone, cuore del bianco Soave classico. Posto all’estremo sud della Val d’Alpone, con i suoi 1.900 ettari di terreno agricolo, 1.500 dei quali a vigneto e con circa 1.000 aziende iscritte all’albo, è il paese a più alta densità viticola del Veneto e forse anche d’Italia, il Bel Paese di Dante Alighieri. Se paragonati ai genovesi della precedente ondata, i veronesi che andavano in Sudamerica all’epoca erano ancora tutto sommato pochi. Dure le condizioni che incontravano una volta in Merica.
Le tesi dell’argentinizzazione si affermarono tra il 1900 e il 1910, con una politica a cui Ramos Mejía diede anche un contributo pratico, a causa del timore delle classi dirigenti di venire fagocitate dall’intraprendenza delle nuove generazioni di immigrati, soprattutto italiani. Nella città di Buenos Aires, nel 1895, sono di italiani 25 delle 29 fabbriche di letti, quasi tutte quelle di orologi per campanili, l’unica fonderia di campane, due delle tre fabbriche di tubi di piombo, e l’unica di ferro, le tre più importanti fabbriche di cucina a legna, una di quelle di ferro galvanizzato, una delle due di biciclette e le uniche due che preparavano apparecchi per l’illuminazione a gas e a elettricità. La necessità di adottare misure repressive trovò fermi sostenitori anche per il pericolo che per la borghesia argentina rappresentavano le idee degli immigrati anarchici e socialisti.
Nel 1902 e nel 1910 furono approvate leggi repressive. In quest’occasione gli immigrati trovarono il sostegno di una parte del parlamento italiano e “La Patria degli Italiani”, il maggior giornale di Buenos Aires in lingua italiana, riportò le interrogazioni di alcuni deputati che chiedevano al ministero degli Esteri d’intervenire, per impedire arresti e espulsioni. Ma proprio nel 1910 diventò Presidente della Repubblica Argentina Roque Saenz Peña. Egli fece approvare una legge elettorale che concedeva il suffragio segreto e universale. Con esso gli immigrati diventavano cittadini argentini di pieno diritto, in grado di influire sulle scelte politiche del Paese. L’assimilazione fu facilitata e, se rimasero vive a lungo tradizioni italiane, la vera patria cominciò a essere l’Argentina.
Del resto, era ormai cresciuta una generazione che della patria d’origine conosceva soprattutto ciò che ne narravano i padri. L’Argentina era prima di Pena, uno Stato, come quello attuale del resto, profondamente iniquo, e Sáenz Peña cercò di colmare questa lacuna, almeno nei diritti politici. In quel quadro si inserisce la vicenda umana del “poeta del tango” di Monteforte. L’Argentina è per i lavoratori del vecchio mondo la terra promessa; gli italiani sono i più coinvolti in questa corsa sfrenata sbarcando negli anni dal 1886 al 1889 in quantità sempre crescenti (43.000, 67.000, 75.000, 88.000). Nel 1889 la prosperità arriva al culmine, e nel 1890 arriva la crisi. L’afflusso in Argentina fu il maggiore tra quelli verso le Americhe. La maggior parte degli immigrati provenne dall’Italia settentrionale. Il principale periodo dell’immigrazione italiana in Argentina, da un punto di vista quantitativo, è quello che va dal 1876 al 1925. Dai censimenti si vede che la città di Buenos Aires ospita interi contingenti di italiani.
Le origini culturali attorno alle quali trae origine il tango sono molteplici. Si assiste a una perfetta fusione di espressioni africane, europee e latino americane. Il tango nasce come un ibrido ma completamente rinnovato e originale nello stile, nella musica e nelle parole, diversamente ad altre realtà culturali, ben più radicate e vicine alla tradizione popolare, dalle quali il tango attinge elementi. È difficile ricondurre la nascita del tango a un periodo ben preciso, così come è difficile ricostruire un definito iter culturale che ne dà i natali e ne accompagna l’evoluzione. La storia vuole che sia nato nelle carceri degli immigrati, nei porti, tra i bordelli, esercitato da prostitute come strumento di seduzione e intrattenimento dei propri clienti, dei quartieri poveri delle città di Buenos Aires, Montevideo e Rosario. In un simile contesto ebbero modo di fondersi diverse forme musicali (candombe, payada, milonga, habanera, tango andaluso, polca, vals ecc.), di ispirazione popolare provenienti dai popoli più disparati (africani, gauchos, coloni hispanici, indigeni, italiani, cubani, andalusi) fino a dare vita a quello che oggi riconosciamo, appunto, come tango.
Molto è già stato detto delle radici spagnole e nere di questa forma d’arte. D’altra parte l’influenza dell’immigrazione italiana non è stata pienamente soddisfatta dagli studiosi dell’argomento e invece gli italiani hanno esercitato una considerevole influenza sulla gestazione e lo sviluppo del genere nazionale argentino. Importanti mezzi grafici, durante i primi anni del XX secolo, si riferivano all’italiano aciollado come famoso coltivatore di tango. La cronaca dell’epoca aveva già notato che questo tano marrone-rossiccio sensibile abitante del penultimo piano del conventillo all’angolo, martellava al ritmo di un tango il ricordo di una strada, di una madre o di un amore che era rimasto, per sempre, dall’altra parte dell’oceano. I tanos, gli italiani (come erano soprannominati), sono rimasti nel tango. Alcuni di loro preferivano conservare i propri cognomi, altri li santificavano, altri ancora li “francesizzavano”. Mario Battistella, l’autore di Cuartito azul – tra centinaia di altri tanghi – è, come detto, nato a Monteforte d’Alpone il 5 novembre 1893. A quattordici anni entra a far parte di una compagnia di spettacoli itineranti – in cui interpreta il ruolo di musicista che suona il mandolino e con cui fa tournée in Italia, Francia, Svizzera e Austria –. È ancora molto giovane quando, nel 1910, emigra in Argentina.
Le sue prime poesie furono pubblicate su “La Canción Moderna” e il suo primo tango, Pinta brava, con musiche di Charlo, è del 1927. Nel 1929 andò in Italia per visitare i suoi genitori e da lì si spostò a Parigi come traduttore della Paramount e nel 1932 fu con Carlos Gardel a collaborare nei suoi film Melodía de arrabal, Esperanto y La casa es seria, scrivendo con Alfredo Le Pera le canzoni che sono cantate in loro. Incontrò Gardel nel 1922 al Teatro Variedades, quando iniziò come autore e si consacrò alla fama mondiale.