Schermi d’Amore è qui. È tornato, lo si può toccare con mano. Beh, forse non toccare con mano, ma vedere con i propri occhi sì. Respirando l’inconfondibile odore da vecchio teatro del Ristori, che ha ospitato la serata di apertura del Festival, martedì 12 febbraio, e ospiterà anche le prossime giornate, da venerdì 15 a martedì 19.
Non poteva esserci luogo migliore per dare il via alle danze della quindicesima edizione di Schermi d’Amore, che torna dopo una lunga pausa di nove anni, con una proiezione speciale de Il fantasma dell’opera, quello interpretato da Lon Chaney nel 1925. Non appena si sono spente le luci, tra la partitura eseguita dal vivo al piano dal maestro Antonio Coppola, l’impressionante restauro del film (che ha restituito splendore alle sequenze a colori, davvero all’avanguardia) e la sontuosa scenografia del teatro, sembrava di essere tornati indietro a una serata degli anni Venti, quando il cinema era ancora una meraviglia del progresso riservata a pochi.
Oggi invece il cinema è per tutti, e per fortuna. Ma questo implica anche che l’antico rito della sala stia lasciando pian piano il posto a nuovi e molteplici modi di fruire l’arte audiovisiva. È per questo che, come afferma il direttore artistico Paolo Romano, nei minuti introduttivi della serata (e come aveva anticipato nel corso della conferenza stampa di presentazione), un festival come Schermi d’Amore è «ancora più importante di dieci anni fa. Perché almeno per una settimana la sala diventa il luogo privilegiato della visione cinematografica su grande schermo, e in questo momento storico ne abbiamo bisogno».
Il fantasma dell’opera è anche una dichiarazione d’intenti circa il futuro di Schermi d’Amore, per quanto venga da un passato remoto. «Schermi d’Amore è un festival libero e moderno, perché il melodramma si trova in quasi tutti i generi cinematografici. Ci permette di lavorare con emozioni e sentimenti e di attraversare la storia del cinema.»
«È con emozione che apriamo questa quindicesima edizione di Schermi d’Amore», è intervenuto l’assessore a cultura, turismo e politiche giovanili Francesca Briani. «Non è stata una scelta facile, ma una scommessa che spero vinceremo con facilità.» Circa la programmazione, Paolo Romano promette che vedremo «tante pietre preziose». Come L’adultera (The Touch), film poco conosciuto di Ingmar Bergman «che non si vede in Italia da quarant’anni».
Se dobbiamo giudicare basandoci solo sulla serata di apertura, la scommessa è stata vinta: sala gremita, entusiasmo nell’aria, grande partecipazione. Il tutto per una proposta certamente non facile, perché convincere tanta gente a sedersi per un’ora e mezza e vedere un film muto nel 2019, per quanto gratuitamente, non è scontato.
Eppure c’è un fascino speciale nel vedere un muto con l’accompagnamento dal vivo in sala. È come scavare una nicchia nel tempo e tornare a un cinema più fisico, dove i martelletti colpiscono le corde di uno strumento di solido legno, mentre sullo schermo si alternano immagini girate su set giganteschi, costosi e spettacolari. E no, non ci stiamo dimenticando che la proiezione è tutta digitale.
Anzi, è interessante notare come anche chi si è occupato della selezione del festival, tra cui Luca Caserta, che ha curato la sezione corti, abbia preso in considerazione proprio l’evoluzione tecnologica che da sempre è alla base del cinema. Prima de Il fantasma dell’opera, sono stati infatti proiettati due corti di animazione con le silhouette, Carmen (1933) di Lotte Reininger, e Invention of Love (2010) di Andrey Shushkov, realizzati con tecniche diametralmente opposte, a mano il primo, in computer graphic il secondo. Come a dare un messaggio inequivocabile: il mondo cambia, ma il cinema resta sempre il cinema.