Il Piano Socio Sanitario regionale cerca di “fermare l’emorragia”. Servirà?
È un grido dall’allarme a più voci: mancano medici, sia specialisti che di medicina generale. Per effetto dei pensionamenti e del blocco del turnover, in Veneto i camici bianchi sono 1.300 in meno rispetto al fabbisogno. E con l’entrata in vigore di Quota 100 è probabile che la situazione peggiori.
La sezione veronese della Fimmg (Federazione Italiana dei Medici di Medicina generale) ha incrociato i dati sui pensionamenti forniti dall’Enpam, l’ente di previdenza di categoria, con quelli dei neo diplomati alla Scuola di formazione in Medicina generale, che in tutta la regione sono una cinquantina l’anno, e ha calcolato che nel 2021 i veronesi senza il medico di famiglia saranno 16.800. A distanza di tre anni lieviteranno a 156mila.
Non è un mistero nemmeno che gli ospedali territoriali vadano a caccia di anestesisti, pediatri, ginecologi, ortopedici e specialisti dell’emergenza-urgenza. Le corsie languono: a fronte dell’autorizzazione ad assumere, nel 2018 l’Azienda ospedaliera universitaria integrata ha avanzato 30 posti liberi per l’impossibilità di trovare camici bianchi da arruolare, mentre dalle strutture della Ulss 9 scaligera sono andati in quiescenza o sono stati trasferiti altrove 50 medici che ora è difficile rimpiazzare.
Amministratori ed esponenti del mondo politico intervengono sul tema e la maggior parte ha ragione, quando dice che c’è un errore di programmazione negli accessi alla formazione da correggere a livello ministeriale. Ma perché «aprire, anzi spalancare le porte» (cit.) dei corsi di Laurea in Medicina e Chirurgia, abolendo il numero chiuso come più di qualcuno suggerisce, non risolverà il problema?
Prima di tutto, perché le università definiscono il numero di posti disponibili in base agli spazi e ai docenti su cui possono contare, e a Medicina, oltre alle aule, c’è da fare i conti anche con le corsie dell’ospedale che gli studenti bazzicano a partire dal quarto anno. A Verona, per esempio, i 180 posti del Corso di Laurea in Medicina e Chirurgia sono quelli giusti per garantire a chi li occupa di ricevere una formazione adeguata. Il 4 settembre 2018, quando si è svolto l’ultimo test d’ingresso, i candidati erano più di 1.600: anche considerando la scrematura naturale dopo il primo anno, cosa succederebbe se l’accesso fosse indiscriminato?
In realtà, la falla del sistema è l’imbuto strettissimo fra il numero dei laureati (circa 12mila l’anno) e le borse di studio per le Scuole di specialità e per la Scuola di formazione in Medicina generale (circa 7mila). In sostanza, in questo momento storico riesce a specializzarsi un laureato su tre, e un laureato in Medicina senza la specializzazione può al massimo lavorare come guardia medica o fare qualche sostituzione negli ambulatori territoriali. Inoltre, nonostante siano già risicate, le borse di specialità possono andare sprecate se il vincitore del concorso sigla il contratto, ma poi ci ripensa per orientarsi su altro. Un esempio? Per avere un’alternativa, qualora il piano A non andasse in porto, il neo laureato XY partecipa sia al concorso per la Scuola di Specialità che a quello per la Scuola di formazione in Medicina generale, che vengono pubblicati a mesi di distanza l’uno dall’altro. Ebbene, se XY vince entrambi i bandi, firma un contratto per la Specialità, però poi vira sulla Medicina generale e il posto che lascia vuoto non è rimpiazzabile scorrendo la graduatoria.
Insomma, se c’è una programmazione da ripensare, riguarda le borse di Specialità. Stanziare ulteriori fondi a questo scopo è impegnativo, per questo il Veneto avrebbe individuato una soluzione nei percorsi paralleli: medici esclusi dalle Scuole di Specialità assunti a tempo determinato, a spese della Regione, per lavorare in reparto a fianco dei colleghi con la borsa di studio, col tempo suddiviso tra teoria (30 per cento) e pratica (70 per cento). Il provvedimento è contenuto nel Piano Socio Sanitario che il Consiglio Regionale ha approvato a dicembre scorso.
Funzionerà? Intanto, al netto dei fondi necessari per il reclutamento straordinario, bisognerebbe trasformare la proposta in legge e stabilire come supervisionare la formazione, per non perdere l’uniformità tra le figure specialistiche a scapito della qualità delle cure. Più facile a dirsi che a farsi, come l’autonomia regionale con cui questa manovra ha molto – o tutto – a che fare.