Gli elettori di destra a Verona dovrebbero erigere un monumento al #giender. Oppure ai #mikrantih. O meglio ancora a tutti e due. Se queste “categorie dello spirito” non esistessero, per loro sarebbe un bel problema dato che, pur credendo di aver espresso un voto che ha portato al governo della città una coalizione di centrodestra, anzi più di “destra” che di centro, di fatto si trovano governati da una specie di spin-off di una giunta di sinistra emiliano/romagnola dei tempi dell’egemonia comunista nelle amministrazioni locali del centro Italia. Per dare sostanza a questa affermazione facciamo innanzitutto un passo indietro: Verona è la città del “Butelismo”, la vera ideologia mainstream di riferimento cittadina. Il Butelismo, a Verona, è più di un modo d’essere, è una categoria dello spirito in senso Hegeliano.
Il “Butel” è metagenerazionale, si può essere “Butei” a tutte le età, basta aderire ai suoi principi base. Che sono pochi e facili da imparare. Innanzitutto la divisa: il Butelismo ortodosso prevede che d’estate si indossino Stan Smith, pantaloni a mezzo polpaccio tinta sabbia con tasconi capienti e polo Fred Perry o (meglio ancora) “the Firm”. L’inverno prevede l’inserimento di un bomber nella dieta. Il butelismo poi è una massa compatta, l’unica sua sottocategoria sono “i butei con la BI maiuscola” , sorta di “Butei extended edition”, come gli abbonamenti alle pay TV. Poi abbiamo l’ideologia, che in realtà è abbastanza basic. Il Butel, con qualunque dimensione di “BI”, è di destra e vede con occhio sospettoso il gender e gli immigrati. A Verona questa categoria dello spirito ha prodotto un governo locale. Infatti, mai nella storia del governo della città v’è stata un’amministrazione più aderente ai principi del Butelismo come quella in carica dalle ultime elezioni amministrative. Immagine iconica è rimasta quella dei festeggiamenti per la vittoria elettorale, con neosindaco e supporter vestiti tutti con la divisa ufficiale del Butelismo ortodosso. Tuttavia, assai curiosamente – o forse no – all’affermazione di una categoria dello spirito di destra ha corrisposto solo in minima parte il dispiegamento di politiche di destra.
La giunta dei Butei, una volta insediatasi, infatti ha partorito una serie di provvedimenti che farebbero passare le socialdemocrazie scandinave per nostalgiche della Restaurazione post congresso di Vienna. Prima di tutto la politica urbanistica, che sembra essere scritta da Legambiente. Dove la destra, quella vera, cazzuta, cementifica, la destra dei Butei vuol piantare rose e violette, come ad esempio nell’incoming “Central Park” cittadino (“Central” alle Golosine? Boh…). E quindi “NO” all’edificazione, selvaggia o addomesticata che sia. L’idiosincrasia per qualsiasi cosa che abbia seppur lontanamente a che fare con il mondo dell’edilizia che ha l’amministrazione dei Butei è tale che anche i venditori di mattoncini Lego attendono il giorno della pubblicazione delle delibere di giunta con un malcelato brivido di terrore. Passiamo poi all’Arsenale ex Asburgico, croce e delizia (ancora per poco, date le sue condizioni di crollo imminente) della politica urbanistica cittadina.
Un project varato dalla precedente giunta che ne prevedeva il recupero è stato celermente affossato al grido di battaglia «l’arsenale deve rimanere in mano pubblica», slogan che oltre che piacere molto alla sinistra di testimonianza cittadina, trova anche molti (?) estimatori in amene località tipo il Venezuela Chavista di Maduro. Ma è nella politica ambientale che il criptobolscevismo dell’amministrazione cittadina dà il suo meglio. Qualche esempio: i “mobility day” che periodicamente prevedono la chiusura al traffico di parti della città. Provvedimenti completamente inutili che sembrano tirati fuori dall’armamentario di un’amministrazione di sinistra guidata da un sindaco ex sessantottino che si veste in eskimo, con i pantaloni a coste e il maglione a rombi di inverno e con i sandali da frate di estate, con giunta composta da ex femministe rigorosamente “radical” che non si depilano le ascelle come gesto di protesta contro la fallocrazia maschilista. Oppure il “P.U.M.S.”, acronimo di Piano Urbano per la Mobilità Sostenibile. Fateci caso, in genere ogni cosa che contenga l’aggettivo “sostenibile” è: a) una boiata pazzesca, b) una boiata pazzesca di sinistra. Voi capite come vedere applicati provvedimenti così sinistrorsi da un’amministrazione di “Butei” di destra sia un po’ spiazzante. Con l’aggravante che dietro a provvedimenti di tal specie baluginano le fiamme dell’inferno. Fiamme che si materializzano nel proposito “etico” di educare i cittadini all’uso di mobilità alternative all’auto…
I propositi “etici” di rieducazione sociale sono la versione “light” dei progetti sociali di rieducazione delle masse che andavano tanto in voga nelle risaie del sud est asiatico all’epoca di Pol Pot. Ciliegina sulla torta: una iniziativa presentata solo pochi giorni fa prevede la piantumazione di un albero per ogni nuovo nato. Ora, non occorre essere Furet per cogliere l’analogia di questa iniziativa con l’uso che avevano i giacobini di piantare gli “alberi della libertà”, i quali con berretto frigio svettavano nelle città all’epoca della gloriosa Revolution. Consiglieri comunali che hanno nel loro programma politico il contrasto a ogni ideologia partorita dall’aborrita (da loro) Revolution dovrebbero farsi un serio esame di coscienza prima di avallare col loro voto un provvedimento così Gauche. A questo punto, l’elettore cittadino di destra si è ormai convinto di essere governato dagli ultimi lettori di Lotta Comunista. Ed è in questo momento che il gender e l’immigrato gli gettano, paradossalmente, un salvagente. Cosa meglio per definirsi di “destra” oggi che una bella iniziativa contro l’ideologia gender? (come dire: una mobilitazione contro il pericolo rappresentato dal catoblepa). O una bella mozione contro il matrimonio omosessuale?
E vogliamo parlare del “Social Alert” rappresentato dall’immigrazione incontrollata? Il gender e l’immigrato nel guardaroba del politico che si definisce di destra sono come il tubino (nero) di Chanel, dei capi imprescindibili che ti rendono riconoscibile. Insomma, se non ci fossero gender e immigrati bisognerebbe inventarli – e in effetti per il gender sembra proprio che sia andata così–, perché senza di loro il labile confine tra destra e sinistra sarebbe più incerto dell’identità sessuale di un trans carioca.