Allora, bisogna ammettere che la selva su commissione ti mancava. Già ti senti un filo disassata a scrivere di intelligenze circolari, di pavoni sexy, di bradipi eroici et similia, senza che l’amico malato e a sentir lui moribondo – è doxa comune che vari uomini, soprattutto se ipocondriaci, sopportino maluccio una tragedia cosmica come l’influenza – ti chieda un pezzo a lui dedicato stile morituri te salutant. Messa così è difficile sottrarsi. E allora tu ci provi, anche se il tutto ti fa poeta del Rinascimento e relativo mecenate, fatte salve le enormi differenze esistenti, non solo cronologiche ma soprattutto inerenti al valore artistico del commissionando (tu) e alla statura politico-economica del committente (lui). Questo perché a. certo non tutti né la stragrande maggioranza, ma alcuni dei poeti in questione sono passati alla storia letteraria, cosa nel tuo caso probabile quanto un abbraccio fraterno tra Salvini e un venditore nero di collanine on the beach, e b. i suddetti scribacchini o poeti componevano per duchi, conti o roba tipo “sua altezza”, mentre tu annaspi per buttar giù qualcosa di elogiativo per un tizio malatissimo che, se proprio vogliamo una rima, può ora al massimo essere una “grande monnezza”. Cosa che ovviamente non è bella da scrivere in un pezzo su commissione. Se non bastasse, l’aristocratico de noantri è attualmente accudito non da nobilissime dame di corte, ma da quella che tu chiami “trumpina” per assimilazione – c’ha i capelli arancioni, che fanno Trump ma in versione più accesa – o “nutria” per sineddoche – c’ha un cane-topo accomodante quanto un indemoniato davanti all’esorcista che se va retro è meglio, così forse si schianta perché è un po’ impedito – che stamane a San Zeno voleva comprarsi non un abito “tutto tempestato di pietre preziose” (cit.), ma una specie di salopette-tuta da meccanico inguardabile e fuori prezzo che costava, in proporzione, quasi come il vestito tempestato.
Sic stantibus rebus, mica è facile. Però tu sei cocciuta e ti impegni. Una commissione è una commissione. E poi magari anche il signore del cinquecento ogni tanto era cantato in forma di dio mitologico indipendentemente dalla realtà oggettiva, magari era un cesso con la gotta e la calvizie incipiente. E poi esistono anche riedizioni contemporanee seppur non poetiche di tali aggiustamenti della verità oggettiva. Come quando la commessa ti dice che il vestitino stretch ti sta una favola e che in ogni caso le donne in carne saranno il new black della prossima stagione e che in Egitto tirano tantissimo quelle coi fianchi cicciotti, un po’ come nel rinascimento quando le donne belle – cfr. iconografia – erano quelle cicciotte e pallidine perché ad abbronzarsi erano le poracce che lavoravano nei campi. Tu sei perplessa, perché il vestito lo dovresti mettere al matrimonio di tua cugina che vive in Trentino, che dall’Egitto dista un bel po’. Però se ci prova la commessa, lo puoi fare anche tu, e allora cerchi un elemento un po’ degno da cantare.
La musa della poesia dev’essere attualmente impegnata a farsi la manicure, perché niet, non ne trovi.
Allora, invece di diffidare del divino, capisci di aver interpellato la musa sbagliata: invochi quella della scemenza, che è viva e lotta con te, e pensi che alla fin fine l’elemento più decoroso tra te, il committente, l’ancilla e la nutria è proprio lei-lei, la bestia di Satana. In fondo, è quella che fa con maggior dignità il suo mestiere, quello di cane rompicoglioni. Quindi cave canem – non nel senso di pericolo, ma in quello di occhio al cane –, che hai deciso di omaggiare con un componimento poetico stile pseudo-rinascimento tarocco. Un po’ come il latinorum di manzoniana memoria, ma mica si può chiedere troppo, vista la situazione in essere – tu sei un poeta da cassonetto, il committente lasciamo stare, l’ancilla si compra roba usata forse neanche lavata, la musa è un cane-topo – il massimo arrivabile è l’Ode alla nutria : “O nutria che te ne vai furiosa / per l’orbe e sotto il sol sdegnosa / recante teco trumpina e cassonetto, / che or non può che giacer in un letto, / dilettati col tuo fiero pollo [giocattolo sonoro noto per la sua rumorosità e molestia a chiunque abbia un cane, ndr] / veglia su cassonetto, di cibo molto poco satollo, / e controlla la giovine rosso-fuoco chiomata / ché la smetta da schifezze di essere ispirata. / Perdona altresì la pochezza del cantore, / che impiega ben tutto il suo ardore, / ma che da cantar ha sol ‘sti materiali / e forse è meglio se torna a parlar di maiali [il figlio-porco, divinità hawaiana a forma di suino antropomorfo di prossima evocazione, ndr]. Verso libero, eh. Certo il Rinascimento tutto si sta rivoltando nella tomba, ma magari il tuo amico (forse, mica è detto, anzi probabilmente no) apprezzerà il tentativo. In fondo, mica gli hai venduto un vestito aderente che funziona solo in Egitto.
P.S. Come tutti i commissionandi che si rispettino, prima di stampare hai chiesto l’imprimatur. E l’hai pure avuto – per eleganza meglio sorvolare sulla risposta testuale testuale, il succo era “ok” –, a prova del fatto che la febbre alta è parecchio lesiva della dignità personale. In alternativa, forse è davvero morituro e voleva solo essere gentile prima di dipartirsi.
Nel mezzo del cammin di nostra vita/mi ritrovai per una selva oscura
ché la diritta via era smarrita./Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
esta selva selvaggia e aspra e forte/che nel pensier rinova la paura!
Tant’è amara che poco è più morte;/ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai,
dirò de l’altre cose ch’i’ v’ho scorte./Io non so ben ridir com’i’ v’intrai,
tant’era pien di sonno a quel punto/che la verace via abbandonai.
Dante Alighieri, Commedia. Inferno, Canto I