Si sono messi addirittura in quattro a scrivere Non ci resta che il crimine, l’ultimo film di Massimiliano Bruno, compreso quel Nicola Guaglianone conosciuto per le sceneggiature di Lo chiamavano Jeeg Robot (di Gabriele Mainetti), L’ora legale (di Ficarra e Picone), Benedetta follia (di Carlo Verdone) e il recente La Befana vien di notte (di Michele Soavi), tutte pellicole di buon successo commerciale, ma delle quali solamente il primo titolo si può considerare compiuto e veramente ben riuscito.

Massimiliano Bruno, che qui si ritaglia la piccola – ma determinante nella storia – parte di Gianfranco, oltre a dedicarsi abitualmente alla recitazione e alla scrittura di film anche non suoi, ha diretto fino a oggi sei commedie di discreto successo, ma certamente non dei capolavori. Da piccolo dev’essere stato quel genere di studente che si ritrovava nei giudizi dei suoi temi frasi del tipo “Il ragazzo sarebbe bravino, ma non si applica”: un 6 magari lo strappava, però… Ecco.
Ora non penso che Bruno non si applichi, perché l’entusiasmo che mette nei suoi progetti è piuttosto palpabile e pure ammirabile, semplicemente credo che proprio non ce la faccia ad andare oltre la soglia della sufficienza stiracchiata. È un limite, soprattutto se si ambisce a guadagnare anche un consenso critico, ma se ci si accontenta solamente di quello del pubblico allora non c’è problema, va già abbastanza bene così. Ma abbastanza, appunto.

Questo “Ritorno al futuro” al cacio e pepe si appoggia al nostro immaginario filmico dei viaggi del tempo e, soprattutto, all’alchimia di quattro attori ben rodati ed apprezzati dal grande pubblico: se è vero che Giallini è costretto a rifare sempre lo stesso Giallini, ovvero quel burbero eppur simpatico personaggio che gli ha dato la gloria in questi ultimi anni, e Gassman fa l’imbranato un po’ nevrotico insinuando nello spettatore la solita domanda che da quando recita non ha ancora ricevuto una risposta («Ma è bravo o no? Non lo capisco mai…»), chi si stacca dal gruppo è un Tognazzi un po’ più sfaccettato del solito e un Leo serioso come non mai nella parte di un delinquente che ha fatto la storia della criminalità romana e non solo. Infine, come bonus, abbiamo anche la simpatica Ilenia Pastorelli che, per farci ricordare che la storia è ambientata in quegli eccessivi ed edonistici anni ’80 che videro sdoganati fondamentali centimetri di pelle persino in televisione (Umberto Smaila non si è più ripreso per ciò che ammirò in Colpo Grosso), ci fa dono di un notevole quanto non necessario topless, mentre la spavalda cinepresa non indugia neppure un po’ sulle sue chiappe in Cinemascope. Più volte, nel caso non avessimo capito (d’altronde erano la passione anche di Tinto Brass che, proprio in quel periodo, stava ricostruendo la sua carriera fondata su due concetti molto profondi: culi e tette). Per fortuna la doccia dal buco della serratura ci viene risparmiata, ma solo perché ricorderebbe troppo il decennio precedente.

La produzione ce la mette tutta per immergerci negli anni Ottanta: non mancano le figurine Panini dei calciatori, i ghiaccioli multicolor, la pubblicità del pennello Cinghiale e quella più furba della Duracell citata addirittura un paio di volte (magie del “product placement”, essendo un marchio ancora sul mercato), le partite di calcio, le sigarette fumate ovunque, i nomi dei politici in carica, la musica da discoteca e i vestiti per i quali ci saremmo dovuti vergognare già all’epoca; la finta disinvoltura con la quale vengono inseriti tutti questi dettagli per stimolare la memoria dello spettatore ricorda un po’ i goffi e simili tentativi di Carlo Vanzina nel suo Sapore di mare, ambientato però negli anni Sessanta, ma qui viene giocata la carta definitiva, il cuore e motore di tutto il film: la Banda della Magliana. È, infatti, attorno alla figura di Renatino (uno con un curriculum criminale che a malapena ci starebbe su un rotolo di carta igienica) che ruota la vicenda dei nostri eroi, anche se lo sviluppo della storia resta inespresso, frenato, come se agli autori del soggetto qualcuno avesse ricordato che Roma non è Hollywood; fare i conti con il budget a disposizione è doveroso, ma sopperire con l’inventiva e la scrittura dovrebbe esserlo ancora di più, cosa che qui non accade perché si preferisce giocare la carta sicura della simpatia degli attori. Ma non basta.

Tra le cose che proprio non vanno cito l’unico momento un po’ movimentato della rapina in banca, dove il regista dimostra di non aver imparato nulla dalle centinaia di scene viste al cinema, ed il frettoloso finale aperto ad un possibile sequel – alla faccia di Zemeckis che lascia più l’amaro in bocca che un sorriso sulle labbra.

Se pensate di ridere a crepapelle cambiate film, se invece appartenete al fan club dei protagonisti magari potreste anche sorridere ogni tanto. Per il resto, Non ci resta che il crimine è “simpatichino”, ma nulla più. 

Speriamo che finalmente qualcuno capisca che il revival degli anni Ottanta sta volgendo al termine, com’è giusto che sia dopo l’esagerato sfruttamento da parte di film e serie televisive.

Voto: 2,5/5

NON CI RESTA CHE IL CRIMINE
Regia di Massimiliano Bruno
Con Alessandro Gassmann, Marco Giallini, Edoardo Leo, Gianmarco Tognazzi