La recente chiusura dello storico locale Povia ha sollevato un polverone tra i veronesi, ritrovatisi improvvisamente orfani di uno dei punti di aggregazione della propria gioventù. L’eco mediatica ha visto coinvolti sia i canali ordinari che i social media, dove si sono sprecate foto e commenti di ogni tipo: dal pessimismo cosmico di “arriveranno altri cinesi” alla nostalgia canaglia di quelli che, pur non avventurandosi da quelle parti da anni ormai, sentono la chiusura del locale (e di ogni locale, verrebbe da dire) come una sconfitta per il meraviglioso mondo di una volta. Si arriva anche al punto di attaccare il nuovo proprietario accusandolo di ogni nefandezza presente e futura, senza la minima base di informazione.
Impossibile negare a Povia il ruolo di aggregante low-cost che ha avuto nell’adolescenza di tutti noi; chi scrive è fan sfegatata del panzerotto come stile di vita, quindi un pochino ha subito il fascino morboso della disperazione. Al tempo stesso, ritengo di dover considerare la questione con distacco e soprattutto cognizione di causa, effetto e progettualità.
Il caso “Povia” va visto all’interno di un problema ben più articolato, di cui il nostro adorato locale ipercalorico è solo un aspetto quasi marginale. La questione vera è come riuscire a conciliare la tradizione con l’innovazione, quale sia il punto di break-even tra cambiamento e immobilismo.
Tradizione ha origine latina, dal verbo tràdere che significa «consegnare». Portare avanti una tradizione equivale infatti a consegnare un lascito alle generazioni future, sia esso culturale, di costume o anche alimentare. È curioso notare come dalla stessa radice venga anche il verbo tradire, come se la tradizione lasciasse già, nel suo intimo, la possibilità di sfuggirle, anche se in senso negativo. Ma è proprio sempre così sbagliato? Quanto possiamo stiracchiare la tradizione prima che si trasformi in un tradimento? Qual è il punto di non ritorno tra migliorare e sovvertire?
Cercherò la risposta coinvolgendo due cari amici.
Ezio Martel è la pietra dello scandalo, l’uomo che ha acquisito il mitico bar dei panzerotti dagli eredi del signor Povia, attirandosi il vituperio internettaro. Ben 12 anni fa, dopo esperienze molto diverse, Ezio riesce a coronare il suo sogno di diventare imprenditore nella ristorazione rilevando la rinomata Osteria da Ugo, un locale che sotto la sua mano si amplia e si completa sia negli spazi che nella proposta, pur restando molto fedele alla cucina tradizionale veronese. Ezio crede molto nell’investimento continuativo, soprattutto nelle persone: con lui, il personale storico viene affiancato da giovani a cui viene lasciato spazio e modo di crescere, di apportare spirito nuovo, in sala come in cucina. Mi sembra, quindi, personaggio interessato ma anche interessante, per l’esperienza e l’apertura al cambiamento.
Alla visione imprenditoriale si deve affiancare però il guizzo dell’artista, fornito dal noto chef Luca Magagnotti, che dopo anni di gavetta (fondamentale!) con i più rinomati “stellati” in Italia e all’estero e dopo altrettanti anni di lavoro nei ristoranti della piazza veronese, ha recentemente intrapreso quello che considera il suo progetto più ambizioso: insegnare ai ragazzi.
Ezio, togliamoci subito questo tarlo che assilla la meglio gioventù veronese (ma soprattutto i giovani dentro, come me): cos’hai in mente di fare con il nostro Povia?
«Fammi fare un passo indietro. Il signor Povia era salito a Verona nel 1968 per comprare il Tre Corone, affare poi sfumato, ma non è più tornato a casa, complici la moglie che si innamorò della nostra città e due dei figli all’Università di Padova. L’avventura del mitico locale, nato come piano B, lo portò a diventare un punto di riferimento e aggregazione per intere generazioni. Recentemente è mancato, seguito poco dopo da uno degli eredi, lasciando sola Angela, che ha preso la dolorosa decisione di vendere, ma alle condizioni dettate da papà: solo a qualcuno veramente intenzionato a proseguire nella stessa direzione. Ho lavorato sotto traccia per diverso tempo con Angela e posso dirti che è contenta del progetto, in cui coinvolgerò anche mio figlio Giacomo, in una sorta di continuità ideale con il signor Povia.»
I panzerotti restano, quindi? Mi sento già meglio.
«Certo. Restano i panzerotti, restano tutti i membri, molto qualificati e riconoscibili, dello staff; resta la meravigliosa pasticceria con un laboratorio completamente rinnovato e l’ampliamento dell’offerta artigianale stagionale.»
Cambierai tutto per non cambiare niente?
«Beh, cambieranno in effetti molte cose. Il locale aveva bisogno di un intervento importante, per riportare tutto a norma. Sarà bellissimo (e gli brillano gli occhi – nda). Ho in mente un grand café, come quelli che in centro ormai non esistono quasi più. Arredi raffinati, un sapore d’antan e una proposta che possa far ritornare i veronesi, oltre ai tanti turisti su cui si era puntato negli ultimi anni. Il locale verrà ampliato e proporrà tutte le meraviglie tipiche cui ci siamo affezionati negli anni. L’idea sarebbe di proporre leccornie diverse nei vari momenti della giornata: le brioche artigianali alla mattina, piccoli snack tipo cichetti per gli aperitivi e un menu ristretto per il pranzo. E ovviamente panzerotti tutto il giorno!»
Una specie di bistrot alla francese, insomma.
«Sì, con le eccellenze della tradizione italiana, non solo veronese. Una sana alternativa ai piatti pronti buttati nel microonde che imperversano ovunque, con la nostra solita attenzione agli ingredienti e un prezzo alla portata di tutti.»
Luca, che ne pensi? Una mini rivoluzione…
«Mi sembra una scelta intelligente. Offrire un mix di tradizione e novità è sempre stato nelle mie corde, l’importante è mantenere altissimo il livello qualitativo, rispettare la stagionalità degli ingredienti, controllandone la filiera e seguendo direttamente tutte le preparazioni. Sono molti i ristoranti a servirsi di aziende esterne che forniscono le basi già pronte e questo mi fa impazzire, da maniaco del controllo… pregio che ho trasferito a Ezio nei miei anni con lui. Approvo anche la scelta di non duplicare l’offerta del ristorante e di puntare su piatti diversi dai nostri tipici, pur accattivando la curiosità del cliente verso i prodotti del territorio.»
Tu tieni un corso sulla cucina tradizionale veronese, dove però insegni a preparare un soufflé di polenta gialla, con bacon croccante e fondue di Monte veronese. Giuro che mia nonna questa ricetta non me l’ha passata…
«Per me la tradizione va rispettata, coltivata, tramandata; è l’essenza stessa del mio progetto di vita. Al tempo stesso, rendo i piatti più divertenti, per me e per gli aspiranti chef, introducendo metodi di cottura e preparazione diversi, mutuati dalla cucina di altre città o altre Nazioni. In questo modo, anche un piatto semplice come polenta e formajo trova una veste nuova pur mantenendo la sua identità. Così, il sapore in bocca sarà arricchito, oltre che dai ricordi della polenta della nonna e dagli odori della sua cucina, anche da quel piccolo ingrediente nuovo, da un gusto inatteso, una consistenza che stuzzica la tua curiosità. E ti costringe alla seconda forchettata.»
Hanno ragione i miei interlocutori, riguardo allo spostare il punto di equilibrio tra la tradizione inamovibile e l’innovazione tesa al miglioramento: si può fare e forse si dovrebbe anche. In fondo, la tradizione per antonomasia – e forse la più emblematica – è proprio la lingua che parliamo; si trasferisce ai figli, si impara vivendo giorno dopo giorno e – accidenti a lei! – cambia di continuo: si inventano neologismi, si tirano all’estremo le accezioni e si usano parti del discorso in modo sbagliato, in barba ai dogmi di grammatica ed estetica. A volte con conseguenze orribili, purtroppo, ma il processo è inarrestabile e tutto quel che è vivo non può prescindere dal cambiamento. La vita si nutre di trasformazione. Se poi il mitico Povia diventa Cafè Martel, oltre al panzerotto d’ordinanza potremo finalmente tornare a berci, perché no?, anche un buon cappuccino. E credo che, in questo caso, le tazzine di plastica non mancheranno proprio a nessuno!