L’atleta veronese Roberto Coltri è stato fra gli anni Novanta e i primi anni Duemila un saltatore in lungo di prim’ordine, potendo vantare un record personale di otto metri e undici centimetri. Oggi è un professionista nell’ambito della riabilitazione, ma il suo cuore e la sua mente sono ancora quelli di uno sportivo, anche se lontani dall’atletica.
Roberto, all’atletica sei arrivato con il tempo: il tuo battesimo sportivo non è avvenuto nella disciplina che poi ti ha restituito le maggiori gioie sportive, percorso che ti accomuna con tanti altri campioni dello sport: concordi?
«È vero, ho cominciato nel basket perché, come spesso succedeva negli anni Ottanta, i medici consigliavano pallavolo o basket a chi, come me, soffriva di scogliosi. La pallavolo era vista come sport da femmine, quindi iniziai con la pallacanestro agli ordini del noto Fabio Celebrano, tecnico di fama nel panorama veronese. Arrivai all’atletica perché mi notarono a seguito delle vittorie nelle gare di istituto alle medie. Mi gratificava vincerle, pertanto provai ad allenarmi con costanza, ma già dopo poche settimane ero già in pedana ai regionali categoria “ragazzi”, ricordo ancora le misure realizzate. Da quel momento la strada era tracciata verso l’atletica e Angelo Tagliapietra diventò il mio allenatore di riferimento per tutta la carriera.»
Mi pare di capire che l’iniziale spinta motivazionale fu che in atletica ti riusciva piuttosto facile primeggiare, non tanto una particolare passione per il salto in lungo…
«Senza dubbio, anzi a un certo punto stavo per provare pure il rugby, ma vidi un amico tornare con un orecchio mezzo distrutto da un infortunio di gioco e capii che quello non sarebbe stato il mio sport. Inizialmente ho avuto diversi momenti in cui tiravo un po’ indietro, mi mancava la voglia, specie d’inverno con il freddo, non mi sentivo motivato a proseguire atletica. Lì fu brava mia madre che mi spinse a proseguire, a tenere fede agli impegni presi, a continuare a raggiungere in bicicletta il campo di allenamento, mi accompagnava lei. La devo ringraziare per questo.»
Il tuo percorso non fu un’autostrada verso il successo. Ci mancò poco che tu smettessi. Sei però diventato un esemplare professionista delle Fiamme Oro dal 1988 al 2004. Cosa ritieni abbia fatto la differenza, oltre al supporto di tua madre?
«Una volta diventato professionista sono stato capace di dedicarmi ad un obiettivo, superare la soglia degli otto metri. Per anni ho fatto tutto quello che era nelle mie corde per saltare quella misura. Tutta la mia esistenza era impostata per il perseguimento di un fine, dagli orari, all’alimentazione, alle tabelle di allenamento e la programmazione delle gare. Ero professionista, mi sentivo tale e mi comportavo come ritenevo fosse più idoneo per raggiungere gli otto metri. Erano sacrifici, quali svegliarsi sempre di buon’ora e non rinviare mai il sonno oltre la mezzanotte, ma in quegli anni per me erano solo comportamenti necessari, in un certo senso non mi pesavano. Ero stabilmente motivato a conoscere quante più informazioni potevano aiutarmi a saltare oltre il mio obiettivo e ugualmente a conoscermi ogni giorno di più, nel mio fisico e nella mia testa.»
Sei stato professionista in una disciplina individuale: uno dei tuoi figli, Sara, sta avviando un percorso forse simile al tuo (glielo auguriamo), ma nella pallavolo che è lo sport di squadra per eccellenza. Che differenze riscontri?
«In generale credo che nello sport di squadra, ed è cosa che a tratti mi stupisce, molti atleti non siano sufficientemente motivati e responsabilizzati nel fare tutto ciò che è nelle loro possibilità per produrre una performance massimale rispetto alle proprie doti individuali. Si tende a nascondersi dietro a supposte colpe altrui, in generale si tende a delegare a terzi quello che invece dipende direttamente dal proprio agire. Se devo indicare la lezione migliore che lo sport mi ha lasciato è il comprendermi, conoscere i miei limiti, avere consapevolezza delle mie possibilità, ma per ottenere ciò ho dovuto mettermi in gioco con tutto me stesso, mi sono speso, mi sono focalizzato su un obiettivo fino a far gravitare tutto attorno a quello scopo. Forse nello sport di squadra oggi manca questa cultura.»
Immagino che sia un tuo desiderio trasferire ai figli queste tue esperienze, questo tuo approccio, utile non solo nello sport, ma nella vita di tutti i giorni.
«Certo, ma non è facile trasferire ai figli questo approccio. Mi piacerebbe condividere alcune conoscenze frutto del mio vissuto da atleta, davvero, ma sento di essere un genitore molto critico verso di loro quanto lo sono stato verso di me. Se devo pensare a Sara che gioca a pallavolo, c’è già chi si occupa di lei, è giusto rimanere a supporto, ma defilato.»
Stai rivivendo la tua carriera giovanile attraverso le esperienze sportive di tua figlia?
«Il fatto che atletica e pallavolo siano due sport differenti forse sta contribuendo a non farmi tornare indietro con la mente ai miei esordi, alle gare giovanili in cui prevaleva il divertimento e una pura gratificazione per le vittorie. Sono stimolato ad aiutare Sara a definire e realizzare i suoi obiettivi e a dare il massimo per essi, ma non ho nostalgia, l’atletica per me è una pagina sostanzialmente chiusa.»
Fino a ora non abbiamo ancora parlato del tuo palmares, ma anche dell’epilogo della carriera da professionista. Come valuti il tuo percorso e come si è concluso?
«Sono stato convocato per nove volte in nazionale assoluti e nove in quella juniores, ho un terzo e un quarto posto in Coppa Europa, un podio alle Gymnasiadi, due titoli italiani assoluti e altrettanti titoli juniores oltre a un onorevole piazzamento ai Mondiali. Mi manca ahimè una Olimpiade, che ho solo sfiorato a Sidney: causa un infortunio primaverile ho perso il ritmo in preparazione e, arrivato ai trentun anni, quella si è rivelata l’ultima grande chance olimpica. Sono soddisfatto della mia carriera, non potevo chiedere di più perché sono convinto di aver dato il massimo ottenendo quanto mi ero prefissato. Quando però, dopo aver già raggiunto il mio obiettivo, ho cominciato a sentire il peso degli allenamenti, non riuscendo a recuperare da un giorno all’altro quanto avrei voluto, mi sono detto che avrei smesso alla prima gara sotto i sette metri. La fine della carriera è stato dare un taglio netto tra il prima e il dopo, tant’è che successivamente al ritiro non ho più saltato, nemmeno per gioco. D’altronde in atletica o sei in grado di offrire una performance al tuo proprio limite o non ha più senso proseguire, contrariamente agli sport di squadra in cui la vittoria anche in categorie più basse può risultare comunque un obiettivo stimolante. Ho chiuso senza rimpianti e senza rimorsi; certo avrei voluto vivere un’esperienza olimpica, ma lo stiramento subito nel momento chiave di preparazione è stata una fatalità ineliminabile.»
Hai sottolineato più volte la parola obiettivo, attribuendole un valore particolare. Da atleta quando hai raggiunto gli otto metri che sensazione hai avuto?
«Ho ripensato a quanto fatto fin lì, al percorso che avevo portato a termine. Avevo oltrepassato il muro, avevo raggiunto la mia cima. Ho compreso quanti sacrifici avevo fatto per giungere fino quel traguardo.»
Si dice che ogni disciplina abbia il proprio stereotipo di atleta. Ritieni sia un’affermazione veritiera?
«Senza dubbio. Noi saltatori, per esempio, siamo gente goliardica, allegra e siamo famosi nell’avere scarsa propensione agli sforzi prolungati, così come i lanciatori. Da atleta ho confermato questa regola, infatti uno dei ricordi che ho più impressi risale a un allenamento in cui ho corso continuativamente tre km con un gruppo di fondisti in riscaldamento. Questa esperienza mi ha provato a lungo perché finii la corsa fisicamente e mentalmente svuotato, pur con un modestissimo tempo.»
Del mondo atletica nel suo insieme che mi racconti? Come è stato il tuo rapporto con uno sport non certo al vertice per praticanti e per visibilità nazionale?
«L’atletica è un ambiente pulito e di valori. Tralasciando i noti casi di doping che affliggono l’atletica come tanti altri sport, posso dire che è una bella realtà in cui ho avuto la fortuna e la capacità di avere attorno a me tante persone positive e di qualità. Nella mia esperienza posso giudicarlo anche come un ambiente in cui il confronto con l’avversario rimane marginale se non in casi eccezionali: chi ne ha di più vince. Il primo confronto è dunque con sé stessi. Questo aspetto non produce grandi rivalità tra atleti, anzi tra avversari in pedana ci si supporta a vicenda, ho bei ricordi in tal senso.»
Gli atleti, quelli veri, sono quasi sempre uomini di assoluto spessore umano che hanno saputo costruirsi come persona e come atleta partendo da indubbie qualità naturali, necessarie e mai sufficienti da sole. Hanno saputo dotarsi di regole ferree, hanno coltivato e perseguito sogni con entusiasmo, perseveranza e senza scoraggiarsi mai, anche nei momenti peggiori, in situazioni in cui emerge fisiologica la voglia di mollare tutto.
Sono persone che hanno saputo conoscersi a fondo e in tal senso Roberto non è una eccezione, lo si capisce dalla cura con cui ha pesato parole chiare e profonde, rimanendo sempre lucido nell’analisi dei suoi trascorsi da atleta. Per questo, forse, appare normale che, chiusa la parentesi atletica, si sia prontamente focalizzato su altri stimolanti obiettivi che attengono alla sua sfera privata senza imbarazzi, nostalgie o incertezze, che abbia gradualmente scoperto nuove professionalità e trovato un nuovo ruolo per sé, oltre l’atletica, oltre lo sport.