Ethos veneto e accoglienza, tra sindaci disobbedienti e ubbidienti
Il caso dei sindaci che si oppongono al Decreto Sicurezza di Salvini, con la loro dichiarata disobbedienza all’applicazione sul territorio del provvedimento, ci apre, oltre la solita diatriba destra-sinistra, uno squarcio sul conflitto sociale, quasi antropologico, in Italia: tra un Sud disubbidiente e un Nord apparentemente più fedele alla linea, con le ultime dichiarazioni di appoggio alla linea del governo del sindaco di Verona che, nelle parole di Orlando, vede «la solita strumentalizzazione dei sindaci di sinistra, che ancora una volta dimostrano di essere molto lontani da ciò che i cittadini chiedono». Quindi, un Sud accogliente e un Nord egoista? Una destra xenofoba e una sinistra ospitale? E le politiche migratorie, da Minniti a oggi, sono improntate all’egoismo o all’interesse collettivo?
Visto il silenzio dei primi cittadini (che in politica è assenso) del Nord Italia (Parma esclusa), l’azione del governo non sembra espressione della singola volontà del vicepresidente del consiglio e del suo partito, ma risponde a una visione condivisa da una parte consistente dell’elettorato (in crescita, peraltro: la Lega sale al 33,7% secondo l’ultimo sondaggio Bidimedia del 3 gennaio 2019).
È, quindi, una visione collettiva. Ma se fosse collettiva, non dovrebbe essere accogliente rispetto ai migranti? Forse bisogna qui intendersi rispetto al concetto di collettività. Secondo E. O. Wilson, ne Il senso dell’esistenza umana [1], la società si dipana nella storia nella dialettica tra individuo e società. Non è così, in realtà: perché ci sono, nella selezione naturale, due livelli di competizione. Nel secondo livello ci sono i gruppi, a loro volta in competizione tra loro per la sopravvivenza. Ed è questo il punto: in Italia il migrante, specie di origine africana, non viene percepito come parte del gruppo, e non si tratta semplicisticamente di razzismo: nessuno li considera esseri alieni, ma probabilmente vengono percepiti come varianti di specie con le quali, di fatto, ogni gruppo è in competizione perché, a parità di condizioni, «gli esseri umani preferiscono stare con individui che abbiano il loro stesso aspetto, parlino la stessa lingua e nutrano le stesse convinzioni» [2]. Il concetto di popolo insomma: lingua, cultura, territorio. D’altronde, basta girare per il Veneto per confermare la sensazione che molti suoi abitanti percepiscano il Po come confine tra la loro civiltà e gli “altri”.
Quello di allontanare o sopraffare gli altri è una depravazione umana, magari tipicamente veneta, nata dall’egoismo degli arricchiti di fresco? Verifichiamo. Prendiamo le formiche, gli animali con il più alto livello di cooperazione ed eusocialità oltre l’uomo. Sono spesso in conflitto tra loro, tanto che molte vivono razziando le loro simili; esiste persino una formica schiavista americana che induce, attraverso una raffinata strategia feromonica, a schiavizzare le pupe rapite dai nidi di altre formiche. La storia ci mostra che il paragone con le formiche non è affatto campato per aria: il primo comportamento è storicamente affine a tutti i popoli dell’antichità e, nel secondo caso vale, tra i molti, l’esempio dei Giannizzeri ottomani.
La conflittualità tra i gruppi omogenei, ovvero i popoli, è il succo della storia. Constatazione facile. Ecco dunque l’idea novecentesca di un’Europa dei popoli, che garantirebbe sovranità e sopravvivenza a ogni variante di specie (qui in senso culturale più che fisica); scelta presa fin dalla fine della Prima guerra mondiale – i famosi 14 punti del presidente americano Woodrow Wilson – e che non è il prodotto propagandistico dell’attuale governo ma il pensiero dominante del Nord Italia, almeno a prendere per buoni gli esiti dei referendum consultivi autonomisti, oltre che la costante e solida affermazione elettorale dei movimenti indipendentisti.
La Costituzione italiana stabilisce, però, l’uguaglianza tra i suoi cittadini. La sua attuazione, negli ultimi decenni, si limita all’uguaglianza formale perché, probabilmente, il potere ha preso atto che uguali non si è e che, fatta l’Italia, va bene così. Ecco, quindi, perché come questo governo (in continuità con i precedenti, s’intende) abbia destinato fondi pubblici alle scuole paritarie (150 milioni grazie a un emendamento della Lega) in quanto queste non solo accolgono i rampolli dei ceti dirigenti – e dei politici – ma sono al contempo luogo di trasmissione della visione sociale e culturale del gruppo. Un modello che in generale – e soprattutto nella realtà veronese – è religioso e discriminante, assecondando il desiderio dei genitori di separare e proteggere i propri pargoli dalla feccia sociale e dal mondo percepito come pericoloso e deviante.
A Verona tutto questo si concretizza in una Chiesa ghibellina, quasi di stampo ortodosso-putiniano: il potere economico (un club ristretto) è di supporto e vigilanza rispetto a quello politico e garante dell’ortodossia culturale; l’organicità è fondamento della stabilità; la strategia è più conservativa e protezionista piuttosto che aperta (possibile che nessuno dei palazzi storici interessi a investitori stranieri ma venga acquisito o gestito sempre dalle solite banche?). Certo, la carità non è scomparsa: rimane spesso, tuttavia, confinata nelle parrocchie, nel livello religioso più prossimo allo spontaneismo e nell’ottica dell’aiutiamoli a casa loro.
Ma non è la Chiesa sotto esame, ognuno fa il suo mestiere. Il punto è che la Chiesa qui è semplicemente espressione di un profilo umano che, negli ospedali di ispirazione religiosa, negli istituti scolastici privati e, incredibile dictu, anche in alcune scuole pubbliche del veronese, ribadisce i valori di una società in difesa rispetto il relativismo e la globalizzazione che potrebbero spostare gli equilibri interni a favore di entità esterne e, quindi, sospette proprio perché incontrollabili e “foreste”. Mentre è in difficoltà la famiglia – che non ha spesso più l’autorevolezza né la stabilità per indicare la direzione ai figli – per colpa del nemico (e la teoria del gender aiuta a mantenere forte il senso identitario di gruppo attraverso il metus hostilis, la paura del nemico), la scuola è chiamata a svolgere un ruolo supplente di difesa dell’identità del gruppo.
Ma la sanità e la scuola sono pubbliche e statali, si dirà. Difficoltà in fase di superamento: si pensi come in Veneto da anni si insista sull’insegnamento del dialetto (e un popolo è fatto, come detto, di lingua, cultura e territorio) e nella selezione di professori locali; nell’aspetto della continuità riproduttiva con il contrasto alla 194 e l’insegnamento nelle scuole paritarie (ma non solo) di sistemi contraccettivi dalla discutibilissima funzionalità; nella limitazione dell’autodeterminazione della donna, che tradisce quindi una visione vetero-patriarcale della famiglia nella logica dell’interesse superiore del gruppo.
È un fatto che l’identità di popolo passi attraverso la trasmissione dei suoi valori connotanti e discriminanti. Sul tavolo delle trattative per l’autonomia la scuola, non a caso, è uno dei temi più cari oltre alle risorse finanziarie.
«Il decreto – afferma – manifesta il suo volto disumano [3]» dice Orlando, sindaco di Palermo. È vero? Falso? Sboarina, dal canto suo, segnala che tutto va bene, Madama la Marchesa, e che si tratta di una mera distorsione politica. Quindi?
Il guaio è che non esiste una risposta univoca moralmente giusta. La cosa può sconcertare, ma è così: la ragione e la natura dell’uomo sono coinvolte in un conflitto irrisolvibile. «L’uomo è misura di tutte le cose» diceva il greco Protagora e l’uomo è diviso in gruppi e popoli: ciascuno con le proprie misure. La medesima azione in America (in Cina, in Iran, in Italia: è la stessa cosa) può essere punita con la morte e in un altro paese non essere nemmeno ritenuta un reato. Ciascuno decide per sé cos’è giusto e cosa non lo è. Se la vita è formalmente un assoluto, in realtà la sua dignità è relativa al paese in cui nasce o in quello in cui si sposta. E il principio che definisce ciò che è giusto in assoluto? Di fatto, è umano, troppo umano.
[1] Edward O. Wilson, Il significato dell’esistenza umana, Codice,Torino 2015.
[2] Ibidem.
[3] Tgcom24. Politica. Palermo, sindaco Orlando: «Dl sicurezza disumano, io non arretro», 3 gennaio 2019, ore 9:50.