Da tempo malato di cancro, il 28 dicembre si è spento nel sonno, all’età di 79 anni, Amos Oz, docente di letteratura ebraica all’Università Ben Gurion del Negev, intellettuale engagé e autore tra i più noti a livello mondiale, come testimoniano anche i numerosi premi e riconoscimenti letterari da lui ottenuti. Tradotto in più di quaranta lingue (in Italia perlopiù da Elena Loewenthal per Bompiani prima e per Feltrinelli poi), lo scrittore e saggista israeliano era considerato come una delle voci più importanti della narrativa contemporanea per la sua straordinaria potenza evocativa, per la lucidità della narrazione, per la sua abilità nel raccontare storie individuali che si intrecciano alla Storia collettiva di un paese senza pace per cui non ha mai smesso di spendersi. Militante in associazioni pacifiste durante gli anni ’60 e sostenitore sin dal 1967 – l’anno della schiacciante vittoria israeliana nella “Guerra dei sei giorni” – della “soluzione dei due stati” come un possibile appianamento della questione ebraico-palestinese, l’autore ha evocato nei suoi lavori le contraddizioni, le paure e le aporie di una società particolare e complessa in cui pubblico e privato sono spesso strettamente interconnessi.
Ne testimonia uno dei suoi romanzi più celebri, Una storia di amore e tenebra (Feltrinelli, 2003, 627 pp.), “autobiografia in forma di romanzo” (quarta di copertina) che presenta, contestualmente, centoventi anni di storia familiare spalmati su quattro generazioni marcate dalle due grandi forze del titolo e la storia della terra di Israele fino alla costituzione in stato nell’immediato dopoguerra. Ne testimonia il più recente Giuda (Feltrinelli, 2014, 327 pp.), ambientato in una Gerusalemme di fine 1959 in cui le misteriose vicende quotidiane di rapporti equivoci rimandano a una più ampia riflessione sulla Storia, sul cristianesimo, su una concezione inedita del tradimento – cfr. il Giuda del titolo, figura centrale di un testo che interseca la fine degli anni ’50 e le figure evangeliche – derivante dall’interpretazione dei vangeli gnostici e volta a mettere in discussione la doxa (chi ha tradito chi?) religiosa ma, più sottilmente, anche quella socio-politica relativa all’attualità del periodo storico considerato. Ne testimonia Conoscere una donna (Feltrinelli, 2000, 253 pp.), interrogativo sulla capacità quotidiana di comprendere il prossimo vicino e lontano ma anche storia d’amore sorprendente e inedita, o Michael mio (Feltrinelli, 2001, 250 pp.), racconto di un fallimento matrimoniale sullo sfondo di una Gerusalemme ossessionata da una guerra appena finita ma ancora e sempre incombente sulle menti e sugli animi. Ne testimonia anche uno dei romanzi che personalmente preferisco, La Scatola nera (Feltrinelli, 2004, 230 pp.), narrazione magistrale per potenza e padronanza stilistica, disamina spietata di quella catastrofe emotiva e familiare che è stato il divorzio tra Alec, studioso del fanatismo religioso traferitosi negli Usa e Ilana, rimasta in patria e risposatasi con un ortodosso, che dopo anni contatta l’ex marito perché la aiuti a gestire il figlio adolescente ribelle a suo tempo disconosciuto dal padre. In uno scambio epistolare tesissimo caratterizzato da un’immane ferocia dialettica che svela la persistenza di emozioni, sentimenti e sofferenze mai veramente metabolizzati, dimenticati o superati, Oz ci offre una narrazione volta a comprendere e mettere a nudo le ragioni del disastro precedente – la corrispondenza si dipana, idealmente, come lo studio della “scatola nera” di un aereo precipitato – così come il conseguente carico di rancori e sentimenti che spiegano la guerra passata e quella in corso tra protagonisti che feriscono “se stessi e gli altri nella lotta per l’esistenza, in un paese senza compassione” (quarta di copertina).
È ancora la meditazione su un universo “senza compassione” e asserragliato su posizioni opposte e antitetiche – il conflitto israeliano-palestinese in primis ma anche, più in generale, qualsivoglia tipologia di opposizione acritica e partigiana – a sottendere alcuni saggi di Oz. Mi riferisco in particolare agli scritti sul fanatismo – politico, religioso, sociale –, argomento su cui l’autore è ritornato a distanza di anni (Contro il fanatismo, Feltrinelli, 2004, 78 pp. e Cari fanatici, Feltrinelli, 2017, 84 pp.) per smontare quello che percepisce come il vero nemico di un presente contraddistinto dall’assoluta necessità di una convivenza civile sempre più difficoltosa. Il discorso di Oz è ovviamente tanto più valido in un paese dilaniato da decenni di violenze, ma esso risulta idealmente applicabile a qualsiasi contesto socio-politico – e, più banalmente, anche alla più ordinaria quotidianità dell’esistenza – e a qualsiasi realtà geografica. Risulta infatti di universale attualità l’appello dello scrittore alla moderazione e alla ricerca di un compromesso concepito non come un atto di debolezza o di accomodamento ipocrita, ma al contrario come forza vitale, come tentativo indispensabile di comprendere e venire a patti con un’alterità completamente negata da un fanatismo ipocrita, autoreferenziale e pericoloso.
Nel mio mondo, la parola compromesso è sinonimo di vita. E dove c’è vita ci sono compromessi. Il contrario di compromesso non è integrità e nemmeno idealismo e nemmeno determinazione o devozione. Il contrario di compromesso è fanatismo, morte […]. Ritengo che l’essenza del fanatismo stia nel desiderio di costringere gli altri a cambiare. Quell’inclinazione comune a rendere migliore il tuo vicino, educare il tuo coniuge, programmare tuo figlio, raddrizzare tuo fratello, piuttosto che lasciarli vivere. Il fanatico è la creatura più disinteressata che ci sia. Il fanatico è un grande altruista. Il fanatico è più interessato a te che a sé stesso, di solito. Vuole salvarti l’anima, vuole redimerti, vuole affrancarti dal peccato, dall’errore, dal fumo, dalla tua fede o dalla tua incredulità, vuole migliorare le tue abitudini alimentari, vuole impedirti di bere o di votare nel modo sbagliato. Il fanatico si preoccupa assai di te, e o ti si butta al collo perché ti vuole bene sul serio o punta alla gola, nell’eventualità che ti dimostri irriducibile. […] in entrambi i casi, il fanatico è più interessato a voi che a sé stesso, per la semplice ragione che il fanatico ha un io molto piccolo, quando non ce l’ha affatto (A. OZ, Contro il fanatismo).
Se la gestione dell’esistenza è fatta di scelte a livello individuale e collettivo – amore o tenebra, compromesso o fanatismo, vita o morte, Bene o Male in senso etico o filosofico più che religioso –, la scrittura evocativa e potente di Oz indica nettamente qual è la sua personalissima via, lastricata di fiducia nei valori umanistici, di comprensione dell’Altro e di ironia, considerata come un baluardo contro il fanatismo. A mo’ di conclusione, vorrei celebrare l’umanità e il talento di questo gigante della letteratura con un passo di Philip Roth – altro grande autore, diverso per poetica e scrittura, scomparso nel 2018 –, passo che ritengo particolarmente adatto in quanto tra i più illuminanti e ironici relativamente alla gestione delle relazioni umane e alla necessità del compromesso come antidoto alle tenebre:
Lotti contro la tua superficialità, la tua faciloneria, per cercare di accostarti alla gente senza aspettative illusorie, senza un carico eccessivo di pregiudizi, di speranze o di arroganza, nel modo meno simile a quello di un carro armato, senza cannoni, mitragliatrici e corazze d’acciaio spesse quindici centimetri; offri alla gente il tuo volto più bonario, camminando in punta di piedi invece di sconvolgere il terreno con i cingoli, e l’affronti con larghezza di vedute, da pari a pari, da uomo a uomo, come si diceva una volta, e tuttavia non manchi mai di capirla male. Tanto varrebbe avere il cervello di un carro armato. La capisci male prima d’incontrarla, mentre pregusti il momento in cui l’incontrerai; la capisci male mentre sei con lei; e poi vai a casa, parli con qualcun altro dell’incontro, e scopri ancora una volta di aver travisato. Poiché la stessa cosa capita, in genere, anche ai tuoi interlocutori, tutta la faccenda è, veramente, una colossale illusione priva di fondamento, una sbalorditiva commedia degli equivoci. Eppure, come dobbiamo regolarci con questa storia, questa storia così importante, la storia degli altri, che si rivela priva del significato che secondo noi dovrebbe avere e che assume invece un significato grottesco, tanto siamo male attrezzati per discernere l’intimo lavorio e gli scopi invisibili degli altri? Devono, tutti, andarsene e chiudere la porta e vivere isolati come fanno gli scrittori solitari, in una cella insonorizzata, creando i loro personaggi con le parole e poi suggerendo che questi personaggi di parole siano più vicini alla realtà delle persone vere che ogni giorno noi mutiliamo con la nostra ignoranza? Rimane il fatto che, in ogni modo, capire bene la gente non è vivere. Vivere è capirla male, capirla male e male e male e poi male e, dopo un attento riesame, ancora male. Ecco come sappiamo di essere vivi: sbagliando. Forse la cosa migliore sarebbe dimenticare di aver ragione o torto sulla gente e godersi semplicemente la gita. Ma se ci riuscite… Beh, siete fortunati. (Ph. Roth, Pastorale Americana)