Tutto ciò che riguarda Gabriel Garcia Marquez riguarda il mondo intero. Non solo quello più ristretto della letteratura, ma proprio l’intero Pianeta, con le sue mille e costanti contraddizioni. Pochi, infatti, sono stati gli scrittori che, nel corso del terribile Novecento, hanno saputo – come invece lui ha fatto – raccontare la magia del vivere quotidiano.
Gabo, come veniva soprannominato dagli amici, a distanza di quasi cinque anni dalla sua scomparsa torna in libreria. E lo fa a modo suo. Il Banco de la Repubblica de Colombia, infatti, ha presentato Los papeles de Gabo (Le carte di Gabo), con quattro suoi racconti inediti, raccolti a molti altri scritti risalenti alla prima esperienza da giornalista, che il giovane Marquez fece fra gli anni Venti e gli anni Trenta. I racconti, in particolare, saranno anche esposti presso la Biblioteca Luis Angel Arango di Bogotà, capitale del paese sudamericano. Uno di essi è privo di titolo (doveva inizialmente essere inserito nella raccolta Racconti di un viaggiatore immaginario, ma al momento della selezione finale fu scartato); L’annegato che ci portava le chiocciole, un vecchio pallino di Marquez che avrebbe probabilmente voluto svilupparlo per farne un romanzo; Odore Antico, in cui lo scrittore nato a Cartagena abbandona l’immaginario kafkiano avvicinandosi maggiormente allo stile di Hemingway; infine Racconto delle barrette di menta, in cui Marquez descrive il mondo degli immigrati italiani in SudAmerica, capaci di organizzarsi nei primi storici sindacati nelle piantagioni di banane. Tutto un mondo, come si diceva, che poi diede origine
Le sue opere hanno a dir poco segnato un’epoca straordinaria del Novecento, contribuendo a creare quella sorta di “realismo magico” di cui è permeata la letteratura sudamericana. Lui ne era senza dubbio l’esponente più rilevante e per questo sono nate nel tempo schiere di seguaci e imitatori. Per lo più, però, si può parlare di ammiratori, appassionati, gente che ha letto i suoi libri e poi li ha riletti, alla ricerca di sfumature magari sfuggite durante il primo approccio. E di sfumature ne sapeva creare all’infinito, grazie ad un animo sensibile e profondo che gli permetteva di sfuggire alla normalità. Se ne va con lui una penna che ha saputo creare mondi fantastici, intrecci irreali e altrettanto familiari, personaggi indimenticabili, nascite e morti di una crudezza esasperante, amori impossibili ed eterni.
Inutile elencare qui i suoi libri. Sono tantissimi e sono uno più bello dell’altro. Marquez ha saputo spaziare da un genere all’altro, non disdegnando quello storico (Il generale nel suo labirinto), politico (L’autunno del patriarca), giornalistico (Cronaca di una morte annunciata, Notizie di un sequestro), sentimentale (L’amore ai tempi del colera), fantastico (Dell’amore e degli altri demoni) e via dicendo.
Su tutti, però, svetta probabilmente Cent’anni di solitudine. Un intreccio e una selva di nomi che si ripetono e si distinguono in modo talmente matematico e preciso che risultano, paradossalmente, impossibili da ricordare. Una vicenda che ti risucchia a Macondo, città mistica e filosofica, simbolo allo stesso tempo della bellezza e della bruttezza dell’umanità. Un personaggio, Aureliano Buendia, che appare come un Che Guevara ante litteram con il suo romantico fascino del condottiero. E poi la magia, le invidie, le miserie umane e la capacità di elevarsi oltre esse. Mondi assurdi e imperscrutabili. Con un incipit e un finale che regalano, da soli, brividi e lacrime. Gabo, in fondo, era così: metteva al servizio della sua meravigliosa fantasia uno stile inconfondibile e in grado di catturare il lettore fin dalle prime righe del suo romanzo. Ma non è stato solo un romanziere di successo. È stato un giornalista, un docente universitario, a suo modo un filosofo a tutti gli effetti. Le sue raccolte di articoli, reperibili presso le collane Mondadori, portano alla luce l’attenta visione del giovane Marquez, capace fin dai suoi esordi di stupire con personalità e mestiere grazie alla sua lucidità nell’analisi politica e non solo.
Non amava, anche se in un paio di occasioni ha ceduto comunque i diritti, le trasposizioni cinematografiche dei suoi libri. Diceva, giustamente, che ciascuno, quando legge, s’immagina la vicenda secondo la propria esperienza e fantasia e lo stesso faceva il regista. Inevitabile che la sua visione non collimasse con quella di tutti gli altri lettori e che questo fosse all’origine della delusione che molti fan di un libro spesso sentono nell’accostarsi al film ad esso ispirato. Di certo non gli ha reso un buon servizio Mike Newell, il pur bravo ed esperto (Donnie Brasco, Quattro matrimoni e un funerale) regista chiamato ad affrontare la trasposizione de L’amore ai tempi del colera, onestamente uno dei film meno riusciti mai visti e che ovviamente non rende onore (d’altronde avrebbe davvero potuto?) ad un libro straordinario, che celebra l’amore immarcescibile come pochi altri.
Gabriel Garcia Marquez continua a vivere in ciò che ci ha lasciato e per fortuna si può parlare, in questo caso, di un’opera omnia davvero eccezionale. In Vivere per raccontarla, una delle sue ultime fatiche letterarie di un certo rilievo, prova a fare un bilancio della sua vita, raccontando la sua vicenda personale, dall’infanzia fino al ritiro del Premio Nobel nel 1982 e gli anni successivi. Una sorta di summa della sua incredibile vita, che in qualche modo vuole anche essere d’insegnamento. In fondo anche nel suo caso l’enorme talento non sarebbe bastato se non fosse stato accompagnato da una grande caparbietà e dalla capacità di cogliere le occasioni. Attenzione e spirito d’osservazione, accompagnati da un pensiero lucido e scintillante, hanno fatto il resto.
Oggi lo ritroviamo nei quattro racconti inediti, è vero. Ma, come detto, in realtà Gabo non ci ha mai lasciato. I suoi libri ci accompagneranno per sempre.