L’articolo dal titolo “Sicurezza: mito o inganno?” pubblicato su “Il Nazionale” a firma di Lorenzo Mori (che trovate qui: https://ilnazionale.net/attualita-e-politica/sicurezza-mito-o-inganno/) qualche giorno fa consente di aprire un’interessante riflessione non solo sulla critica al Decreto Sicurezza testé varato dal governo delle genti, ma fornisce anche il pretesto per una riflessione sulla concezione di Stato che è sottesa alle politiche che fino ad oggi sono state svolte dal primo governo populista della storia repubblicana italiana.

Nell’articolo viene svolta una stuzzicante critica al provvedimento targato Lega, il quale nella narrazione populista è stato presentato come uno dei temi qualificanti di questo governo.  A parere di chi scrive la prospettiva di osservazione dell’articolo è influenzata dai noti lavori di Nissim Taleb, l’autore del celeberrimo Il cigno nero” oltre che dagli studi di Ulrich Beck su Il rischio nell’età globale. In buona sostanza, nell’articolo Mori sostiene che la sicurezza assoluta non è uno dei diritti che dovrebbe essere garantito dallo Stato. Esso piuttosto dovrebbe demandare ai cittadini le strategie per una riduzione del rischio, dato che la falsa percezione generata da uno “Stato-Leviatano” che gestisce tutte le contraddizioni e i rischi delle società complesse come quelle in cui viviamo disabitua il cittadino a una sana gestione di quelli che Taleb chiama “i cigni neri”, ovverosia gli eventi imprevisti dai quali non esiste alcun riparo. La prospettiva di osservazione è molto stimolante, specialmente in un periodo storico come quello in cui viviamo, nel quale la nostalgia per il Leviatano che risolve tutte le contraddizioni della società occupandosi del cittadino “dalla culla alla tomba” è divenuta esplicitamente un tema per la mobilitazione del consenso.

Lo Stato “machina machinarum”, che compenetra ogni aspetto della vita del cittadino, assomiglia in maniera inquietante alle utopie totalitarie che nella prima metà del Novecento hanno inondato di sangue l’Europa. Ma esistono diversi piani in cui si dispiega l’esigenza di sicurezza del cittadino, e quella fisica – la sicurezza di non essere aggredito, molestato, derubato o peggio – è solo uno di questi. In generale, tutte le politiche del welfare sono finalizzate a dare sicurezza al cittadino, quella di avere cure quando si ammala, di avere un reddito quando si ritira dal lavoro, di avere assistenza se lo perde. Eppure chi potrebbe affermare che tali garanzie fornite dallo Stato possono disabituare il cittadino a una sana gestione del rischio? Ovviamente salvo si adotti una prospettiva anarcoliberista, per la quale lo Stato va ridotto, se non addirittura eliminato. Prospettiva che, curiosamente, gli anarcoliberisti condividono con Marx, il quale presumibilmente solo con estrema difficoltà potrebbe essere annoverato tra i loro riferimenti culturali. Del resto stiamo parlando di una nicchia politica marginale che contende a Lotta Comunista l’ambito podio del premio “Testimone di Geova della politica del XXI secolo”. In un periodo storico nel quale, sia detto per inciso, se lo Stato non esistesse e non obbligasse alle vaccinazioni, vi sarebbe un consistente numero di  cittadini che non si vaccinerebbero. 

Propongo, quindi, un corollario alla lettura critica che l’articolo fa del Decreto Sicurezza, corollario che riguarda il concetto stesso dello Stato che  è peculiare del populismo al potere.

Tutto lascia intendere che il governo giallo-verde concepisca un’idea di Stato “pesante”, non solo nell’economia, e che abbia addirittura la pretesa di avanzare , seppur in maniera che si potrebbe definire – usando lo slang dei nostri tempi – “bimbominkiosa”, delle prerogative “Etiche”. Vedi il ricorrente delirio via social sulla reintroduzione della leva obbligatoria per instillare l’educazione alle giovani generazioni. Ma, se con Weber intendiamo lo Stato come «un’impresa istituzionale di carattere politico in cui l’apparato amministrativo avanza con successo una pretesa di monopolio della coercizione della forza legittima in vista dell’attuazione degli ordinamenti», in quale maniera dovremmo leggere un cavallo di battaglia della narrazione populista come la tanto invocata legge sulla Legittima Difesa, la quale – per quanto è stato possibile capire dal baccano mediatico che la avvolge – subappalta al privato cittadino una parte del monopolio della violenza che è prerogativa della Forma – Stato, di fatto erodendone uno dei fondamenti?

Molto probabilmente la classe dirigente (chiamiamola così…) populista non ha nemmeno gli strumenti concettuali per pensare le conseguenze di un provvedimento del genere, che in fieri sono potenzialmente dirompenti. Quello che si può osservare, invece, è che questo cortocircuito tra diverse concezioni di Stato che finiranno inevitabilmente per collidere, è probabilmente nulla di più dell’ennesimo segnale dell’improvvisazione dilettantesca con la quale il populismo si è trovato a gestire la “stanza dei bottoni” dove la pastorale del risentimento sociale l’ha elevato.