Non conoscevamo praticamente nulla di Luka Modric. Calcisticamente lo scoprimmo ai campionati europei austrosvizzeri del 2008 quando con la maglia della nazionale croata ci conquistò. Vedemmo in lui il prototipo del calciatore moderno, così universale nell’essere padrone di tutte le zone del campo e nell’essere sempre presente nel fulcro della manovra. Uno spartitraffico, mingherlino ma vitale, dotato di enorme dinamismo, piede morbido, buon tiro, visione di gioco e personalità da vendere. Aveva già addosso la stoffa del leader. Non a caso dalle sue parti gli avevano già affibbiato il nomignolo di “Cruijff croato”. Mica uno qualsiasi. Era ovunque. Pensammo che Rinus Michels, il profeta del calcio totale incarnato dall’Arancia Meccanica al mondiale del 1974, se lo sarebbe coccolato uno così. Ci colpiva come sapesse leggere le situazioni e sul pallone arrivasse un attimo prima degli altri; quando la sfera capitava tra i suoi piedi era più al sicuro che nel caveau della Federal Reserve.
Apprendere la sua storia, fatta di un’infanzia terribile, ci aiutò a capire molte cose. Capimmo, ad esempio, che quel gracile biondino aveva dentro una forza e una tempra che altri non potevano avere. Negli occhi e nel cuore Luka Modric portava infatti l’orrore della guerra più cruenta che l’Europa avesse mai conosciuto dalla fine del secondo conflitto mondiale. Una guerra che aveva vissuto sulla propria pelle, che lo aveva colpito negli affetti più cari e per forza di cose forgiato nell’animo. Era il dicembre del 1991 quando Luka aveva sei anni e a Zaton, un paesino di cento anime in tutto, i serbi gli fucilarono il nonno davanti agli occhi. Gli bruciarono la casa, pensando fosse un nascondiglio degli indipendentisti. Era nulla più che una casa cantoniera. Papà Stipe e mamma Radojka trovarono rifugio sulla costa dalmata a Zara, dove il piccolo Luka crebbe con un pallone sottobraccio. Voleva fare il calciatore, ma soldi in casa non ne circolavano. Il caso volle che Stipe avesse trovato un lavoro come meccanico a fianco dello stadio dell’NK Zadar. La carriera del piccolo Luka sarebbe partita da lì. Le prime scarpe da calcio gliele pescarono da un cassonetto dei rifiuti, Stipe intagliò poi dei parastinchi in legno per proteggere le tibie esili del suo figliolo.
Il sogno di Luka era vestire la maglia bianca dell’Hajduk Spalato di cui era tifoso, ma lo bocciarono ad un provino. Se ne sarebbero amaramente pentiti. Nel 2002 sul ragazzino mise gli occhi la Dinamo Zagabria che prima lo girò in prestito a farsi un po’ di ossa, e dopo due anni lo richiamò alla base offrendogli il primo contatto professionistico. Correva il 2008, quando il Tottenham arrivò a spendere 16,5 milioni di sterline per portare Luka a White Hart Lane. Quattro anni dopo il Real Madrid ne sborsò il doppio. Dell’affare beneficiarono in tre: il Tottenham fece cassa, il Real arricchì la galleria dei trofei del Bernabeu, e Modric consacrò il proprio talento nel club più prestigioso al mondo. Il suo palmares in Merengue è di quattro Coppe dei Campioni, tre titoli mondiali per club, una Liga e una Coppa del Re. In Russia lo scorso mese di giugno Modric ha letteralmente trascinato la sua Croazia sul secondo scalino del mondo.
È uno dei giocatori più continui in circolazione in quanto a standard di rendimento. È raro vedere coniugare una così massiccia dose di talento ed estro ad altrettanta continuità e intensità. Non per lui, uno che non conosce lune storte e il suo lo fa sempre a prescindere. Una garanzia. La scorsa estate l’Inter avrebbe fatto follie pur di portarlo alla Pinetina, lui ammiccava, ma Florentino Perez recitò la parte di Don Rodrigo e decretò che il matrimonio non s’aveva da fare. Aveva già perso Ronaldo; i soci del Real la dipartita anche del piccolo asso croato non gliel’avrebbero perdonata. Se ne riparlerà molto probabilmente il prossimo anno: Modric ha il contratto in scadenza a giugno del 2020, se il Real lo cederà la prossima estate incasserà una trentina di milioni, se invece Perez vorrà trattenerlo fino alla scadenza contrattuale, l’anno seguente se lo vedrà sfilare sotto il naso a parametro zero. Più che prendere sarebbe solo lasciare. Staremo a vedere.
Mai in passato un calciatore dell’ex Jugoslavia era stato eletto il migliore al mondo. Solo Dzajic, Savicevic, Pandev, Mijatovic, e infine Suker (unico croato) ci andarono quantomeno vicini. Da dieci anni il Pallone d’Oro era un duopolio condiviso in parti uguali da Cristiano Ronaldo e Lionel Messi. A rompere l’egemonia, è toccato allora proprio a lui, Luka Modric il bambino cresciuto con il suo inseparabile pallone sotto un cielo da cui nella notte di San Lorenzo anziché stelle cadevano bombe. Jim Morrison scrisse: «Non dire mai che i sogni sono inutili perché inutile è la vita di chi non sa sognare». Ecco perché quel pallone mezzo sgonfio e sgualcito è oggi tutto d’oro. Giusto così.