Martedì 4 dicembre (e fino al 7 dicembre) al Teatro della Santissima Trinità (in zona Tribunale a Verona) debutta Riccardo Perso, il quarantatreesimo spettacolo di Ippogrifo Produzioni, scritto e diretto da Alberto Rizzi, con Diego Facciotti e Chiara Mascalzoni. E Il Nazionale ha deciso di cogliere l’occasione – andate a vederlo, non ve ne pentirete! – per inaugurare la serie di interviste alle personalità che animano la scena culturale veronese, partendo proprio dal regista Alberto Rizzi. Classe ’82, Rizzi si presenta, sul sito ufficiale di Ippogrifo, con queste parole: Sono nato il giorno di Giano che guarda avanti e indietro (il 1° gennaio, ndr). Fui cacciatore di efelanodonti e di altri animali immaginari, poi domatore di destrieri volanti ed esploratore del suolo lunare.
Alberto, una presentazione, questa, che dice già molte cose di te…
«La presentazione è già una mistificazione del sé. Se potessi vivere nascosto lo farei. Amo molto quello che faccio: scrivere e dirigere spettacoli, ma non sento la necessità di apparire. Preferisco mettere davanti i progetti più che le persone.»
Anche perché i tuoi spettacoli sono una proiezione del tuo mondo interiore…
«Sì ed è più che sufficiente. Ho scelto quel veicolo per esprimermi ed è già una forte presenza esterna. È un mondo, il tuo, che tu metti a disposizione del pubblico e accetti che venga giudicato. Conservare una parte che rimane solo tua, privata, su cui nessuno può mettere gli occhi è importante.»
Partiamo dalle origini. Alle superiori hai frequentato il Liceo Classico Scipione Maffei, inesauribile fucina di talenti veronesi. Quanto è stato importante per te, nelle tue scelte e nel tuo percorso, lo studio della cultura classica?
«È stato importantissimo approcciarsi non solo alle lingue morte ma anche all’arte, alla letteratura, al teatro. Io facevo teatro già da bambino, a 8-9 anni, perché avevo fin da piccolo questa pulsione. Ma tutto ciò che ho fatto dopo mi è stato utile e il teatro greco, in particolare, è stata una scoperta che mi ha accompagnato, poi, per quasi 10 anni. A 18 anni ho fondato questa compagnia, che inizialmente proponeva quasi esclusivamente i classici del teatro greco.»
Che tipo di esperienza è stata, quella?
«È stata una sfida fondamentale, perché il teatro greco è poco frequentato, ha un codice a parte, è un po’ come affrontare il teatro giapponese o la commedia dell’arte. Non è come fare un testo qualsiasi. Bisogna entrare in quel codice, che risulta molto lontano dalla visione dello spettatore moderno. La passione per i miti mi ha spinto a fare, quindi, molte regie di testi classici.»
Qual è, fra le tante, quella che ti porti ancora sottopelle?
«Sicuramente Antigone di Sofocle è stato il testo più amato di tutti, messo in scena da Ippogrifo ben tre volte, con tre allestimenti molto diversi tra loro. Si tratta di un testo femminile con una protagonista che risulta molto più interessante e vicina alle mie corde rispetto ai protagonisti di altri testi greci. È un testo ambiguo, che non rappresenta solo una sintesi, ma ti propone una tesi e una antitesi. Un modo di esprimersi che si confà al mio modo di scrivere, visto che cerco sempre di mettere in campo delle dicotomie e dei mondi che cercano di intuirsi fra loro, senza in realtà toccarsi e senza che esista una ragione o un torto: che ci sia a tutti i costi una verità stabilita.»
Il tema della “non-verità”, in effetti, è un leitmotiv della tua poetica…
«Per molti anni i miei copioni hanno parlato proprio di questo: dell’impossibilità di raggiungere una verità spiccia. La Verità, quella con la V maiuscola, può arrivare anche attraverso delle forme di menzogna, su cui in generale c’è una sorta di stigma sociale, però il teatro è di per sé una rappresentazione della realtà.»
Dopo il Maffei sei andato a Milano a studiare Cinema. Scelta naturale o sofferta?
«Sofferta perché Milano per me è una delle città più brutte del mondo. L’unica città dove si apre la finestra per cambiare l’aria alla città e non viceversa. Scherzi a parte, a dire il vero per il cinema avrei preferito trasferirmi a Roma, ma sono rimasto a Milano per continuare a fare teatro. Nel frattempo, infatti, avevo già fondato Ippogrifo (nel 2000 a 18 anni, ndr) e finito il Liceo ha prevalso l’idea di rimanere logisticamente più vicino a Verona per poter continuare a lavorare con la compagnia.»
A cosa ti è servito frequentare quella scuola?
«Essendo fino a quel momento un autodidatta, avevo bisogno di testare le mie capacità. Accedere a questa scuola già è stata per me una bella prova: su mille aspiranti siamo entrati solo in quattro. Al di là del vincere o non vincere, il confronto ti dà sempre una misura di te stesso. Quando sei giovane, poi, è particolarmente importante.»
La tua famiglia ha sempre appoggiato le tue scelte?
«La mia famiglia ha cominciato ad appoggiarmi e sostenermi nel momento in cui hanno compreso la mia totale dedizione alla “causa“, ma so che avrebbero preferito che seguissi altre strade. E la cosa divertente è che fra tutti i miei compagni di classe del Liceo alla fine oggi l’unico a non essere precario sono io.»
Si stenta quasi a crederlo…
«E invece è vero. D’altronde quando fai quello che sei non puoi essere precario. Io “sono” un regista: non “faccio” il regista, e quindi non potrei fare altro.»
Io credo che tu non sia precario perché affronti questo mestiere con un atteggiamento assolutamente positivo. Voi vi rimboccate le maniche e cercate di coprire quei “buchi” che il settore pubblico non riesce a coprire.
«Questa è una delle idee fondanti di Ippogrifo: creare lavoro e posti di lavoro. D’altronde facciamo un mestiere che vogliamo fortemente. Io sono uno che invece che 10 ore di mare preferisce mezz’ora di teatro. Ogni giorno in cui posso vivere il teatro sono felice come un bambino. Mi rendo conto, però, che è un lavoro che comporta inevitabilmente molti sacrifici, che poi sono quelli che portano forse anche alle lamentele di tanti colleghi. Nei confronti di questo mestiere, è vero, c’è una specie di delegittimazione: se vai a una cena di personalità, fra di loro gli altri commensali si chiamano dottore e avvocato, mentre tu sei e sarai sempre il signor Rizzi. Perché siamo da sempre considerati alla stregua dei saltimbanchi e niente di più. Se, però, uno fa questo lavoro aspettandosi un riconoscimento sociale forse ha sbagliato mestiere. Il teatro, l’arte, si amano e si fanno innanzitutto per sé stessi, per un senso che si vuole dare a sé e agli altri.»
Ricordi l’emozione della prima rappresentazione scritta da te andata in scena?
«Me lo ricordo bene. Sono passati esattamente vent’anni: era il 1998 e io avevo solo 16 anni. Ero giustamente incosciente, come bisogna essere a quell’età, e come tutti gli adolescenti ero convinto di saper fare bene qualsiasi cosa. Che poi se non c’è quella molla difficilmente ci si lancia. Ho scritto e portato in scena Lasciatemi divertire, un titolo che poi, stranamente, è diventato un po’ il motto di tutta la mia vita. C’è molto divertimento, molta leggerezza come valore importante.»
E con Riccardo Perso, al debutto nei prossimi giorni, le emozioni sono ancora le stesse o sono mutate?
«Per fortuna sono diverse, con stadi umorali ovviamente molto differenti fra loro a seconda del momento. Questo è il mio quarantatreesimo spettacolo e oggi ci sono ovviamente ben altro tipo di aspettative. Quando, però, superi così tante “ore di volo” alla fine sei in ansia solo verso te stesso. Non sei più in competizione con nessuno. Cerchi, più che altro, di capire dove sei e dove stai andando. A volte sei tranquillo, perché tutto più o meno ti torna, mentre altre volte – visto che quello che facciamo va visto e apprezzato dal pubblico – sei più preoccupato. Chi fa teatro sa che il pubblico è parte integrante dello spettacolo. Fra l’altro Riccardo Perso ha avuto una gestazione di molti anni. Ci penso dal 2013.»
Come mai?
«Sostanzialmente perché non è una commedia. Mi spaventa un po’. Perché vuol dire affrontare alcuni temi difficili e scavare dentro l’anima. Vuol dire anche mandare a casa la gente con le lacrime agli occhi, piuttosto che con una risata. Forse, però, era arrivato per me il momento giusto per fare questo tipo di spettacolo.»
Una consapevolezza arrivata anche attraverso gli errori commessi?
«Tutto quello che impari lo impari a tue spese, soprattutto in questo settore, dove c’è sostanzialmente poca collaborazione. Non ne capisco nemmeno poi così tanto il motivo. Non si può, secondo me, sentirsi in concorrenza con le altre compagnie. Io faccio uno spettacolo all’anno e mi auguro vivamente che il pubblico venga a vederlo, ma che poi mi auguro anche che negli altri 364 giorni vada a vedere anche le proposte dei colleghi. Sarebbe come dire che a Wes Anderson dispiacesse che il pubblico vada a vedere i film di Woody Allen. Non ha alcun senso. Se uno va al cinema va al cinema. Punto. Anzi, più cultura teatrale si diffonde e più è probabile che l’intero settore ne tragga giovamento. Purtroppo, però, questa sembra diventata una sorta di guerra fra poveri. Capisco che possano nascere ingiustificati rancori e gelosie, che però – ribadisco – non hanno senso, perché davvero c’è la possibilità di lavorare non solo per tutti gli attuali operatori, ma addirittura per un numero doppio di professionisti. Forse questo avviene, invece, proprio perché facciamo un lavoro in cui mettiamo tutto noi stessi e questo ovviamente impone quasi di coltivare il proprio orticello. Poi, va detto, in questo campo ci sono persone che hanno un codice fiscale a parte per il proprio ego. Se potessimo, invece, aiutarci un po’ di più gli uni con gli altri non sarebbe male.»
Ci racconti l’incontro con Chiara Mascalzoni, la tua attrice “feticcio”?
«È stato un incontro fortunato. Io nel 2009 volevo portare in scena, su commissione del Comune di Verona, una Lisistrata e mi sono ricordato di Chiara, conosciuta ai tempi del Liceo. Mi capita di lavorare con molti attori diversi, ma quella volta avevo finalmente l’occasione di offrirle questa parte. Ci siamo trovati talmente bene che da allora non ci siamo più lasciati: è stato fino ad oggi un matrimonio artistico indissolubile.»
Il lavoro che avete fatto su Sic transit gloria mundi è stato straordinario…
«È stato divertentissimo e leggerissimo. Mi hanno dovuto strappare dai libri. L’ho studiato per due anni, ma avrei probabilmente studiato per altri anni, se fosse stato necessario. Il testo, di solito, lo scrivo quasi di getto, alla fine del periodo di studio, periodo che può durare anche molti mesi, se non addirittura anni, appunto. In generale posso affermare che nessuno dei testi che ho scritto ha avuto una gestazione inferiore ad un anno.»
Ecco, ci spieghi come lavori di solito?
«Quando mi si apre un’idea in testa la metto in una sorta di cassetto mentale. Poi ci ripenso, aggiungo idealmente dei file e così via, fino a quando i tempi sono maturi e decido finalmente di lavorarci seriamente. A volte dal lampo iniziale all’inizio dei lavori veri e propri possono passare anche molti anni.»
In occasione dell’Iliade ti sei confrontato anche con il testo di Alessandro Baricco. Che lavoro è stato?
«È stata una delle esperienze artistiche più belle. Ci ha permesso di sintetizzare due mondi: quello di oggi, il nostro, e quello greco antico. È stato anche uno spettacolo impegnativo, con cinque attori e due tecnici in scena. Forse anche per questo motivo non ha potuto circuitare più di tanto e di conseguenza non ha avuto grande successo di pubblico, come invece è capitato con Sic Transit Gloria Mundi, che – avendo una struttura più snella – ha potuto fare moltissime repliche in giro per l’Italia. Poi devo dire che in generale io, da regista, preferisco non mettere in scena i miei testi. Quando parti da una matrice esterna puoi plasmarci sopra il tuo modo di vedere le cose e per certi aspetti risulta un’esperienza ancora più creativa. Mi sento più regista quando metto in scena il testo di un altro, insomma. Dato un soggetto, ad esempio l’Amleto di Shakespeare, tu vai a vedere come il regista lo interpreta. Se invece crei tu, fin dall’inizio, il soggetto, già nella scelta e nella scrittura c’è molto di personale.»
Nel 2011 arriva Barbara Baldo all’Ippogrifo e ti cambia letteralmente la vita.
«Svolta importantissima per la compagnia e per me. Insieme a Chiara siamo un trio molto solido, condividiamo tutte le visioni e le decisioni il che, per una piccola compagnia, è fondamentale. Barbara ha portato energie nuove e un’organizzazione efficiente. Tutto questo ci ha permesso, anche da un punto di vista meramente distributivo, di raggiungere livelli che probabilmente non avremmo mai raggiunto, senza di lei.»
Sono più importanti i momenti di scontro o quelli in cui ti appoggia incondizionatamente?
«Io odio gli yes team. Se lavori con tutte persone che la vedono come te fai molta fatica a lavorare. Una delle cose che mi spaventa del Riccardo Perso è che per il momento piace a tutti e in questo senso sento che c’è qualcosa che non va. Il mio lavoro è una ricerca continua… se qualcuno ti suggerisce di andare da una parte, spesso ti aiuta a capire che tu in realtà volevi andare dall’altra. Teatro, cinema, sono lavori di eterno confronto. Già ci confrontiamo poco a livello globale, nel teatro più che nel cinema, se poi all’interno del tuo entourage non avessi alcuna occasione di confronto sarebbe grave. Rischieresti di chiuderti eccessivamente. Che poi è il rischio che corrono, ad esempio, molti monologhisti, abituati a lavorare in solitudine: ci si chiude nel proprio mondo, convinti di fare bene le cose, ma artisticamente si perde per forza qualcosa.»
Non solo teatro, ma anche cinema. A partire dalle rassegne che organizzate specialmente d’estate. Come si intersecano con il fil rouge che propone Ippogrifo?
«L’idea di fondo è quella di avvicinare il pubblico a quello che solitamente non si vede: film vecchi o film addirittura mai visti in Italia. C’è poi la gioia dello stare insieme e dello scoprire e coltivare bei posti, magari poco conosciuti, come Forte S. Caterina. È un’attività che ci porta via molto tempo e anche molto fegato, perché curiamo l’organizzazione in ogni singolo dettaglio, siamo sempre presenti e non deleghiamo nessuno. Ma ci dà anche molte soddisfazioni.»
Operaforte, in effetti, è cresciuto esponenzialmente nel corso degli anni ed è diventato sempre più un punto di riferimento attesissimo dai veronesi, soprattutto da quelli che non vanno in vacanza a luglio.
«Numeri alla mano, oggi a Verona è la rassegna più importante per presenze e quantità di date. È un festival che si autosostiene, anche grazie all’aiuto di sponsor privati, che però non coprono completamente il budget di spesa.»
Operaforte ha sviluppato delle costole con dei minifestival in lungo e in largo nella provincia. Insomma, vi sdoppiate, triplicate, quadruplicate…
«Siamo stati a Bovolone, Cavaion, Mozambano, Nogara, in città nel Chiosco di San Bernardino e quest’anno anche in Piazza dei Signori e in Settima Circoscrizione. Il cinema all’aperto è forse l’intrattenimento culturale al prezzo più basso possibile. È una sorta di rito collettivo. Portiamo il cinema a casa delle persone. C’è l’idea del quartiere e di una società da vivere insieme.»
Arriviamo ora al Rizzi regista di cinema. Dal tuo primo cortometraggio fino ai prossimi progetti. C’è un’evoluzione che non finirà mai, ma c’è un qualcosa che caratterizza tutte le tue opere?
«Esistono due modi di fare cinema: quello dei Fratelli Lumière, che cerca di spiare la realtà, e quello di George Méliès, che è quello di chi cerca di raccontarti una storia. Io appartengo di più a questo secondo filone. Sento affinità con Bergman, con Fellini, con Woody Allen, con Tim Burton, con Wes Anderson, con Spielberg, con tutti quei registi che hanno fatto della favola la loro cifra stilista, di quel cinema che dice ok, ora ti prendo e ti porto da un’altra parte. Non ho mai amato, al contrario, il cinema realistico, crudo, rubato per strada, simile al documentario. È un cinema che a me personalmente non piace fare.»
Sleeping Wonder è un cortometraggio realizzato qualche anno fa con toni particolarmente onirici e che tratta il difficile tema della disabilità. Ci racconti com’è nata questa piccola opera?
«Nel 2010 ho incontrato questo gruppo di ragazzi-adulti, disabili mentali e fisici, ed è stato amore a prima vista. Mi sono trovato con loro per dei laboratori teatrali e a fare un sacco di altre attività. Ne è nata la necessità di raccontare, attraverso il cinema, la disabilità mentale. Ho voluto raccontare la loro situazione, senza pietismi, ma anche senza povertà di mezzi, con un progetto che fosse tout court artisticamente cinematografico. La presidente dell’Associazione che li segue Rita Marchioni ha avuto un grande merito, perché l’ha voluto fortemente realizzare questo film. È stata una grande opportunità per me, perché è stato un cortometraggio che ha visto un incontro di energie davvero particolare, con tantissime persone ed enti coinvolti. È stato un crescendo, con un percorso importante e che ci ha permesso di vincere numerosi premi, soprattutto all’estero. In Italia è stato accolto meno bene, a conferma della bontà del film. Nel cinema italiano, infatti, soffriamo molto tutto ciò che c’è di estetico.»
Da un anno e mezzo, con la Giunta Sboarina, Verona è tornata ad avere un Assessore alla Cultura. Fino ad ora si è visto secondo te qualcosa degno di attenzione o c’è qualcosa che ti piacerebbe venisse fatto…
«Ho visto tante amministrazioni passare a Verona. Quello che posso dire è che quello della Cultura è un problema di ordine nazionale, non certo solo locale. Non c’è, in generale, una visione sulla Cultura e qualsiasi movimento attorno ad essa alla fine risulta sempre goffo. Anche a livello di Ministero abbiamo sempre assistito ad approcci tampone. Mi sembra un segnale buono che ci sia un Assessorato, che però non risolve certo i problemi di Verona. Ma io non incolpo i politici di quello che succede. I politici si occupano di quello di cui ci occupiamo noi cittadini e l’80-90% delle persone non si occupa di Cultura. La gente non va nei musei, non va al cinema e men che meno va a teatro. Non possiamo, quindi, lamentarci di una politica deficitaria sulla Cultura perché so che non è quello che davvero interessa ai cittadini.»
Non pensi, però, che si tratti di un gatto che si morde la coda? Meno si fa e si parla di Cultura e meno i cittadini si interessano alla Cultura. Voi siete la dimostrazione che lavorando bene si ottengono i risultati. Il politico la vision sulla Cultura la deve avere, altrimenti fallisce in partenza…
«C’è una teoria generale che dice “diamo alla gente ciò che vuole vedere”, che rappresenta un errore sistematico. La verità è che non si può sapere ciò che si vuole, se a conti fatti non lo si vede mai. Certo, a volte la gente sceglie, in tv, di vedere Alberto Angela e il suo successo dimostrano proprio questo: se offri la possibilità di guardare qualcosa di valido, alla fine la scelta ricade su di esso. In generale, però, è più difficile scegliere il bello, se non ti viene mai proposto. È molto più facile proporre il brutto, che è più fruibile. E alla lunga le persone si abituano ad esso.»
Quali soluzioni, dunque?
«Sarebbe bello che ci fosse una linea di pensiero che dicesse che non si può essere italiani senza aver visitato almeno un museo, senza aver assistito ad almeno un’opera lirica ecc.. E invece è pieno di persone che non hanno mai fatto né l’una né l’altra cosa. Ma la vera domanda che dobbiamo porci è: la politica vuole che le persone vadano al museo o a teatro o ascoltino la lirica? Non ce lo propongono perché non vogliono proporcelo o perché pensano che a noi che li abbiamo votati non interessa. Io mi stupisco che il genere umano non abbracci la Bellezza, ma questo conferma l’errore filosofico che è stato fatto nel Settecento, durante l’Illuminismo, quando si volevano aprire le porte delle biblioteche, con l’illusione che il popolo andasse a cibarsi di tutto lo scibile umano. Oggi noi possiamo tranquillamente comprare con 5 euro un libro che nessuno avrebbe mai potuto leggere nel Medioevo. Ma perché non si fa? Perché appunto il brutto è più semplice. Ecco, ciò che cerchiamo di fare con Ippogrifo nel nostro piccolo è cercare di appassionare anche una sola persona alla Bellezza.»
Sulle politiche della città, però, che mi dici?
«Starò qui altri 15 anni e vedrò passare tanti Assessori alla Cultura. Non è quello il problema. È più urgente volersi bene, non coltivare l’odio e il rancore e ritrovare il senso dello stare insieme.»
Finiamo con una domanda di marzulliana memoria: c’è un sogno che hai sempre tenuto nel cassetto e che ti piacerebbe affrontare prima o poi?
«L’unica cosa che spero di continuare a fare è questo lavoro. C’è, poi, quel progetto che hai in mente di fare e che non riesci mai a realizzare, ma che in qualche modo declini in tutti gli altri progetti. Spero, poi, di fare un po’ più di cinema in futuro, anche se per il cinema italiano sono ancora un giovane regista. L’esordio medio, in Italia, avviene di solito attorno ai 42 anni, mentre io ne ho ancora 36, quindi ho ancora molto tempo per questo. E poi, ammetto, un giorno mi piacerebbe dedicarmi all’opera lirica e debuttare magari in Arena. Sono un appassionato melomane e la nuova Sovrintendente ha un sacco di belle idee sui giovani, sugli autori emergenti e quindi – perché no? – un giorno magari ci riuscirò!»