I seguaci dei Beatles, i “Beatle people” (in italia i “Beatlesiani”), costituiscono una comunità eterogenea e variegata come poche. Sono tantissimi, innanzitutto, ben distribuiti nei cinque continenti e abbracciano diverse generazioni di appassionati di musica. Uniti da una passione che non ha eguali nella storia della cultura popolare, e dall’essere tendenzialmente poco aperti al resto del mondo delle sette note, sono altresì noti per essere piuttosto focosi, oltremodo perniciosi, spesso faziosi ma, vivaddio, appassionati in maniera tanto convinta da diventare spesso folcloristica.
Il Beatlesianesimo è per molti una religione, per altri molto di più. Basti pensare che il pellegrinaggio a Liverpool e Londra, in quelli che sono da considerarsi veri e propri luoghi di culto, prosegue immarcescibile da decenni e ha avuto la sua genesi quando gli eroi da venerare, di fatto, erano ancora giovani e produttivi.
Tralasciando l’analisi delle caratteristiche dei fan, che meriterebbe approfondimenti di natura antropologica e sociologica, vale la pena di sottolineare come gli stessi stiano vivendo una decade piuttosto intensa.
A partire dal 2012, infatti, i Beatlesiani si trovano a festeggiare, ogni anno, il “cinquantesimo” di qualcosa. Sembra poco credibile ma gli scarafaggi non esistono più da quasi cinque decadi, e tutto ciò che hanno inciso negli 8 anni scarsi in cui sono esistiti come gruppo attivo, celebra in questi anni i 10 lustri di vita.
Giovedì 22 Novembre 2018, l’universo degli appassionati dei Beatles si trova a festeggiare i 50 anni della decima fatica discografica dei Beatles: il “White Album”.
Dal titolo originale di “The Beatles”, l’Album Bianco svetta al numero 10 della classifica dei migliori album di tutti i tempi secondo la rivista Rolling Stone. Contiene 30 canzoni originali, per una durata totale di quasi 94 minuti distribuiti su 2 vinili. Primo (e unico) LP doppio dei Beatles, nonché primo lavoro pubblicato dalla “Apple Records”.
Per capire quali sono i motivi artistici che rendono tale LP un capolavoro basta far girare i due vinili, non serve molto altro. O magari anche solo i singoli che lo hanno preceduto.
Per comprendere, invece, come mai tale lavoro sia considerato un monumento alla musica, da venerare e rispettare, indipendentemente dalla fede individuale, è necessario contestualizzarlo. Attorno ai quattro di Liverpool, allora sui 25 anni di età (non sto scherzando), erano da poco cambiate moltissime cose, a partire dalla prematura scomparsa del loro manager, Brian Epstein, per overdose. Nonostante le ovvie tensioni, Brian, amico prima che capo, era sempre riuscito a governare le quattro teste degli artisti più osannati della storia del Pop. In sua assenza, quelle teste, anche solo inconsciamente, avevano subito iniziato a seguire sentieri individuali che, con direzioni non sempre lineari, li avrebbero presto convogliati all’inevitabile traguardo. L’essere “liberi” da Brian, dai concerti, dalle divise da scarafaggi e dagli inchini coatti, non ha fatto bene all’intreccio del film della storia dei Beatles ma, come di consueto, non ne ha intaccato la colonna sonora. La musica di quel periodo di cambiamento risulta profondamente diversa da quella prodotta nei due anni precedenti ma altrettanto valida: molto più immediata, diretta e, con qualche ovvia eccezione, intellegibile.
Il 1968 è stato il periodo dello spiritualismo, del desiderio di quei quattro ragazzi di borgata ritrovatisi divinità, di staccare con la minaccia della Beatlemania e con il bisogno fisico di cercare pace in un luogo lontano. Il grosso dei brani dell’LP sono stati scritti in India, dove Harrison aveva portato il gruppo per seguire i corsi di meditazione e filosofia del Maharishi, mezzo santone o presunto tale. Quel periodo ha consentito, se non altro, di staccare la spina per un po’, provare a dimenticare le droghe pesanti, prendere in mano la chitarra acustica, rilassarsi e fare ciò che sapevano fare meglio: scrivere canzoni.
Con tutto quel materiale in mano, rientrati in patria, i “vecchi Beatles” avrebbero potuto sfornare almeno dieci tra LP, EP e 45 giri, tornando a buttare carbone nella mastodontica caldaia che avevano creato e che ancora scaldava il mondo intero. Invece hanno deciso di pubblicare tutto assieme, o quasi. Pubblicarlo senza troppe sovrastrutture, a partire dalla copertina, semplicemente bianca, col nome del gruppo in rilievo: idea tanto in contrapposizione con il recente passato (caratterizzato dalla psichedelia e dai colori sgargianti di progetti come Sgt. Pepper’s Lonely Hearth club band), quanto rivoluzionaria. Anche la maggior parte delle canzoni avrebbero potuto essere portate sul palco, per la loro semplicità, cosa impensabile con le (iper)produzioni risalenti anche solo all’anno precedente. Una cernita, per molti critici, avrebbe garantito una qualità media maggiore, ma i fan non smetteranno mai, invece, di ringraziare per tanta grazia ricevuta [altra spiegazione dell’inconsueta abbondanza starebbe nella necessità di esaurire al più presto il numero di canzoni previste dal loro contratto con la EMI, con la quale erano vincolati fino al 1973, al fine di sdoganarsi e poter pubblicare liberamente con la neonata Apple].
I Beatles, proprio in quel periodo, hanno iniziato a essere “gruppo” solo sulla carta. Nella realtà si stavano evolvendo in quattro artisti scaltri e consapevoli, spesso in contrasto tra loro, che si ritrovavano assieme per incidere materiale composto singolarmente, chiedendo aiuto agli altri solo se proprio non potevano farne a meno. Paul, non a caso, già abituato a fare il chitarrista al posto degli altri, inizia a sostituire anche Ringo senza grossi complimenti.
Il pubblico, ancora una volta, li ha seguiti, ormai abituato a cambi di direzione tanto repentini quanto forieri di inarrivabili libidini sonore.
Il progetto dell’Album Bianco ingloba perle assolute, presto diventate classici intramontabili, che non hanno necessità di grosse presentazioni: Hey Jude, Lady Madonna, Back in the USSR, Revolution, Dear Prudence , Obladi Oblada, While My Guitar Gently Weeps, Blackbird, Julia, per nominarne solo alcune.
Ma ora tocca passare ai discorsi dotti, per guadagnarsi la paga. Dove giace il motivo dell’immensità del progetto dipinto di bianco? Alcuni dicono che contenga, oltre ad egregie esecuzioni di canzoni originali mutuate da generi classici (Honey pie è un charleston sorprendente, Yer Blues un blues che dagli imperatori del pop non ti aspetti e Back in the USSR un surf rock che ha poco da invidiare ai Beach Boys), i semi di nuovi generi che altri avrebbero fatto fiorire a stretto giro. Come dare torto a questi alcuni, quando fior di esperti individuano nella roboante Helter Skelter un embrione di Heavy Metal, e in Obladì Obladà echi di ska?
Eppure il vero motivo sta altrove, secondo chi scrive. Siamo nel millennio infestato da generazioni di sedicenti artisti che si auto-definiscono “Indie” vendendosi (termine utilizzato non a caso) come alternativi, nuovi, vibranti, frizzanti e innovativi. Tutti costoro, consapevolmente o meno, stanno semplicemente utilizzando suoni, intenzioni, moduli, melodie, arrangiamenti e idee che quei maledetti geni dei Beatles hanno regalato al mondo con il White Album, cinquant’anni orsono.
Ascoltare per credere.
[parzialmente tratto dal libro BEATLESUPREMACY, di Vito Franchini].
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