Un presidente eletto da due anni che affronta per la prima volta quel “referendum” sul suo governo che di fatto è insito in ogni elezione di metà mandato, e viene – per sua stessa ammissione – “asfaltato”.
Il partito di opposizione che, pur essendo ancora frammentato, in cerca di nuova identità e drammaticamente sprovvisto di nuova leadership, riesce a catalizzare la “rivolta contro il presidente”, e grazie a ciò non solo stravince le elezioni della Camera, ma guadagna diversi seggi anche al Senato, e “vince tutto” anche nelle elezioni dei Governatori dei singoli Stati, persino in quelli considerati roccaforti del partito del Presidente.
Poteva essere questa la sostanza delle elezioni di metà mandato appena concluse, se si fosse concretizzata la “ondata blu” della quale molti favoleggiavano mesi addietro.
E invece no. Questa è stata la sostanza di un’altra elezione di metà (primo) mandato, quella di otto anni fa, la prima midterm durante la presidenza di Barack Obama.
Nel 2010 i Democratici oltre a detenere la maggioranza in entrambi i rami del Congresso erano anche al comando nella maggioranza assoluta degli Stati, sia quanto a governatori che quanto a maggioranze parlamentari locali (le quali a loro volta determinano lo spazio di manovra del governatore).
I Repubblicani, per contro, erano – più ancora dei Dem di oggi – politicamente divisi e drammaticamente sprovvisti di qualsiasi embrione di leadership. Da quando Obama era stato eletto venivano descritti come sull’orlo dell’estinzione (memorabile una cover story di TIME in questo senso). Quell’anno, per riprendersi la maggioranza alla Camera Il Grand Ole Party avrebbe dovuto rimontare di almeno 39 seggi (quasi il doppio di quei miseri 23 seggi che quest’anno bastavano per la rimonta ai Dem). Alla fine i repubblicani ne conquistarono ben 63 – circa il doppio di quelli che i sondaggi estivi avevano pronosticato. Dei seggi conquistati dai Repubblicani, solo 23 si trovavano in regioni nelle quali il GOP andava tradizionalmente forte, mentre il grosso (29 seggi) si trovava negli Stati centro-settentrionali, in mezzo al Midwest industriale, con picchi in Pennsylvania e in Ohio, ma anche nello Stato di New York e in Illinois. Si trattò della più grande vittoria elettorale parlamentare repubblicana dell’ultimo secolo: bisogna risalire al 1894, ai tempi della seconda elezione di Grover Cleveland, per trovare un record superiore.
Più complessa la questione al Senato: quando Obama era stato eletto alla Casa Bianca nel 2008 i Dem avevano raggiunto addirittura la cosiddetta supermaggioranza, anche se risicatissima di 60 senatori su 100, non uno di più; ma poi la avevano persa all’inizio del 2010 quando alle suppletive in Massachusetts tenutesi dopo la morte di ted Kennedy era stato clamorosamente eletto un repubblicano. Partivano quindi da 59 seggi, e i Rep da 41. Non perdettero la maggioranza, ma la videro ridursi a 53, perché il partito di opposizione strappò comunque 6 seggi a quello di governo.
Per quanto riguarda i governatori i Dem, che fino al 2010 ne detenevano la maggioranza assoluta (26 su 50), quell’anno persero una dozzina di Stati, tra i quali praticamente tutto il MidWest.
“Da qualche parte lungo il percorso, colui che era l’apostolo del cambiamento ne è divenuto il bersaglio, sommerso dalla stessa corrente cavalcando la quale era stato portato alla Casa Bianca due anni fa”. Questo fu l’incipit dell’analisi pubblicata a caldo non da un sito web conservatore, ma dal New York Times. In conferenza stampa Obama ammise: “ci hanno asfaltati” (“a shellacking“).
Ecco: non leggerete nulla di simile per quanto riguarda le prime midterm della presidenza Trump (se lo doveste leggere, mettetevi a ridere).
Non c’è stato alcun “referendum perso” per il presidente, non si è registrata alcuna crisi di rigetto, nessuna grande marea di riflusso. Certo, del terreno perso qui e là, ma questo accade praticamente sempre in tutte le elezioni di metà mandato. È fisiologico ed usuale. Qui la vera notizia è la modestissima entità di questo terreno perso, e quindi la tenuta di quello che, da oggi, è ancor più “il partito di Trump”.
Questo dato è ancora più significativo se si considera che la affluenza alle urne è stata altissima. Alle midterm del 2010 si erano presentati alle urne poco più di 82 milioni di elettori, contro I 130 milioni delle presidenziali del 2008: un calo di circa un terzo, qualcosa come 45 milioni di elettori in meno. Quest’anno invece i primi dati parlano di una affluenza alle urne di circa 114 milioni di elettori, mentre due anni fa quando Trump venne eletto risultano aver votato poco meno di 139 milioni. Da almeno vent’anni non si vedeva una affluenza alle urne tanto massiccia alle midterm. Ora, siccome non si è trattato affatto di uno tsunami di voti contro il partito di Trump – anzi -, se ne deve desumere che una parte rilevante di questa mobilitazione si è verificata a sostegno del presidente, il quale ha così dimostrato di godere di un consenso meno estemporaneo ed effimero di quanto si sarebbe potuto immaginare.
Alla Camera i Democratici hanno strappato ai Repubblicani quella trentina di seggi stimati dalle ultime previsioni. Un buon risultato, ma decisamente nulla di eclatante. Ora “essere in minoranza” alla Camera creerà a Trump qualche rogna, ma non sarà la fine del mondo. Inoltre,
in vista della campagna elettorale per la sua rielezione nel 2020, paradossalmente il presidente potrebbe anche trarne un paio di vantaggi tattici (ad esempio scaricare sull’opposizione la responsabilità per la mancata approvazione di questa o quella legge, e magari anche far leva sulla antipatia che molti elettori nutrono nei confronti di Nancy Pelosi, la quale essendo capogruppo Dem alla camera è ora candidata naturale a riassumerne la presidenza).
Il dato pesante è semmai quello del Senato dove i Repubblicani non solo non hanno perso la maggioranza, ma addirittura hanno conquistato tre seggi in più. Una maggioranza solida al Senato è molto più importante per il Presidente rispetto ad una maggioranza al Senato, perché il Senato ha anche potere di conferma o veto su tutta una serie di importanti nomine presidenziali, a cominciare da quelle dei giudici. A proposito: negli ultimi mesi uno dei passaggi più critici è stato quella della nomina alla Corte Suprema del giudice Brett Kavanaugh, nonostante le accuse di molestie sessuali. Dei senatori repubblicani che – allineandosi alla linea del presidente – hanno contribuito alla sua conferma, l’unico che stanotte si è giocato la rielezione è Dean Heller, che in Nevada è stato battuto dalla Democratica Jacky Rosen. In generale il Nevada ha rappresentato uno dei “punti di luce” per i Democratici, essendosi in generale riallineato alla confinante California anche nella elezione del Governatore, cosa che non accadeva da un ventennio. Questa però è stata la sola, isolata eccezione. Per contro, almeno cinque senatori democratici uscenti, che avevano votato contro la nomina di Kavanaugh, stanotte sono stati mandati a casa, mentre quell’unico democratico bastian contrario che aveva votato con i Repubblicani è stato rieletto (Manchin in West Virginia).
Le tradizionali roccaforti repubblicane sembrano non essere state scalfite. In Texas, dove i riflettori erano puntati in modo quasi esasperato sul tentativo di Beto O’ Rourke di spodestare Ted Cruz, lo sfidante Democratico si è dovuto accontentare di una sconfitta molto meno larga di quelle che solitamente i candidati del suo partito registrano nel Lone Star State. Va però osservato che se aver subito un distacco di soli tre punti percentuali è inusuale per un Democratico in Texas, è altrettanto inusuale anche l’investimento finanziario e mediatico che il partito aveva concentrato su questo tentativo, anche a livello nazionale. Forse sentiremo ancora parlare di lui, quanto meno dai repubblicani del Texas, ai quali fa comodo aver vinto un po’ meno a mani basse del solito: nel 2020 potranno chiedere che il presidente e il partito li diano meno per scontati e incanalino da loro più risorse.
Nella sempre cruciale Florida (per un soffio, come sempre accade nel Sunshine State) i Repubblicani non solo si tengono il governatore, ma quello uscente, il trumpiano Rick Scott, ha strappato il seggio al Senato al Democratico Nelson; inoltre, stanotte il partito Trump ha vinto anche nell’altro “swing state” quasi sempre decisivo nell’eleggere (e rieleggere…) un presidente, ovvero l’Ohio, lì, con l’elezione a Governatore di Mike DeWine, anche con un discreto margine.
Probabilmente per Trump la parte più amara di questo risultato elettorale è rappresentata dalle vittorie che i Democratici hanno conseguito nella elezione dei governatori in Stati del Midwest come il Wisconsin e il Michigan, che notoriamente avevano “fatto la differenza” nella sua elezione di due anni fa.
Ma anche al netto di questo serio limite, si tratta pur sempre di una mezza vittoria per il presidente più controverso dell’ultimo mezzo secolo. Obama nel 2010 avrebbe venduto l’anima al diavolo per delle midterm come queste. È pur vero che poi nel 2012 Obama venne rieletto; ma per l’appunto, a maggior ragione, Trump che è sopravvissuto alle sue prime midterm molto meglio di lui, ora pensando al 2020 può non sorridere?
Alessandro Tapparini
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